Nicolò Bassetti: “Con il mio nuovo film racconto la vita di quattro transgender per abbattere ogni stereotipo”
Nicolò Bassetti è il regista de Nel mio nome, film documentario che segue la vita di quattro ragazzi transgender. Berlino Magazine, in occasione della proiezione della pellicola alla Berlinale 2022 ha avuto il piacere di intervistarlo
Presentato nella sezione Panorama della 72esima edizione della Berlinale, Nel mio nome è un film documentario che cerca di spazzare via tutti gli stereotipi legati a un tema molto spinoso: la transizione di genere. Dietro la macchina da presa il regista, ma anche urbanista e paesaggista, Nicolò Bassetti già co-autore di Sacro GRA diretto da Gianfranco Rosi e vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2013. Con lui ho parlato della genesi del film – nato dall’esperienza personale di Bassetti e dal percorso di transizione di suo figlio Matteo – di come sia stato difficile non cadere nella trappola dello stereotipo e di come l’attore transgender Elliot Page sia stato coinvolto nella realizzazione di Nel mio nome. È un film importante per il tema che affronta, una pellicola che andrebbe vista da tutti per poter comprendere una tematica che molti di noi giudicano prima di conoscere affidandosi ai peggiori cliché.
“L’idea di girare Nel mio nome è nata dopo aver ricevuto una lettera di mio figlio. Erano le parole di una persona che mi stava dicendo che stava per lasciare le sponde del genere femminile per intraprendere un viaggio alla ricerca di sé”
Nel mio nome segue la vita di tutti i giorni di 4 ragazzi transgender: Leo, Nico, Andrea e Raff. Bassetti li segue nelle loro attività quotidiane, senza invadere mai morbosamente il loro spazio e lasciando che siano le loro storie le vere protagoniste del film. Ma come è nata l’idea di girare Nel mio nome? “L’idea è nata 4 anni fa da una lettera che mi ha scritto mio figlio Matteo nel mezzo della notte. Erano parole molto coraggiose, molto belle e che cercavano di rassicurarmi. Dicevano ‘fidati di me stai tranquillo stammi vicino e seguimi’. Ed erano le parole di una persona che mi stava dicendo che stava per lasciare le sponde del genere femminile per intraprendere un viaggio alla ricerca di sé. E mi diceva che lui non sapeva dove sarebbe arrivato né dove si sarebbe fermato e quanto questo viaggio sarebbe durato”.
“Ma per lui era una cosa necessaria, così urgente che mi pregava di credergli e di avere fiducia in lui. Per me è stata una bomba, insomma all’inizio devo ammettere che un po’ di spaesamento c’è stato. Ma da regista sono stato abituato che lo spaesamento è sempre qualcosa che prelude a una novità importante. Però, subito, ho capito che, da genitore, la mia responsabilità era quella di seguirlo e di fidarmi di lui ma anche di dargli voce. Per questo ho pensato che questa vicenda potesse diventare un racconto e che potesse anche diventare un’occasione per elaborare il nostro rapporto. Ho trovato il coraggio di parlare con lui della possibilità di narrare questa storia e pensavo mi mandasse a quel paese. Invece no. Abbiamo parlato a lungo e nel giro di qualche giorno è venuta fuori la struttura del film. Uno schema semplicissimo che non ho mai abbandonato”.
“Non ho mai scritto nessun soggetto e nessuna sceneggiatura per il film. C’è solo stato un perimetro narrativo dentro al quale stare. E questo perimetro aveva quattro pilastri fondamentali, tra cui evitare stereotipi di ogni genere. Una sfida difficilissima se pensiamo a un Paese come l’Italia dove i o le transessuali sono ancora visti come dei clichè”
Guardando Nel mio nome stupisce come Nicolò Bassetti sia riuscito a cogliere l’ ‘essenza’ dei protagonisti, raccogliendo i loro racconti in una maniera estremamente spontanea, naturale e schietta. Ho quindi chiesto a Bassetti se, prima di cominciare a girare o in corso d’opera, avesse scritto un soggetto che i protagonisti avrebbero dovuto seguire, anche in minima parte. “Il soggetto in realtà non c’è, c’è una struttura che è semplicemente un perimetro narrativo dentro al quale stare. Questo perimetro ha quattro pilastri fondamentali. Uno di questi è di stare lontanissimo dagli stereotipi, evitarli come la peste, ecco. E questo, devo dire la verità, non è stato facile”. Se poi pensiamo che un Paese come l’Italia è intriso di clichè, soprattutto rispetto a chi affronta un percorso come la transizione di genere, la sfida di Bassetti è stata particolarmente ardua. “Esattamente. Quindi è stato molto difficile anche volendo star fuori dagli stereotipi non caderci dentro. È veramente un labirinto, un percorso a ostacoli dove puoi perderti in ogni momento e io ho rischiato di farlo. Per fortuna c’era mio figlio che mi ha fatto da mentore e che mi ha detto ‘Stai attento perché se vai in quella direzione rischi molto’. Un altro pilastro che ho posto è stato quello di cercare la bellezza nella dignità e nel coraggio di questi ragazzi. Ma anche di porre l’accento sull’ironia e su tutti gli elementi belli che fanno parte proprio della loro identità, della loro sopravvivenza quotidiana, della loro resilienza e mettere sullo sfondo il loro percorso di transizione come un paesaggio. Un elemento che ovviamente c’è e che non va negato ma che è ‘dietro’ insieme a tutta la sofferenza, il voyeurismo, il guardare dal buco della serratura. Sono tutti aspetti che, se messi in primo piano, avrebbero travolto e distrutto il senso del film. Nel mio nome è invece la ricerca costante della ricchezza e della dignità di questi ragazzi due qualità che loro avevano e hanno. Quello che ho fatto è stato raccogliere questi ‘funghi’ che trovavo lungo il mio percorso con loro”.
“Ho incontrato quelli che poi sarebbero stati i protagonisti di Nel mio nome in un gruppo transgender di Bologna ma non ho mai preso in considerazione di inserire anche mio figlio nel film”
Scegliere di raccontare la storia del percorso di transizione di suo figlio poteva sembrare la via più semplice per realizzare il film. Ma come mi spiega Bassetti, paradossalmente, sarebbe stata anche la più rischiosa. “La scelta di non inserire mio figlio Matteo nella storia è stata immediata. Anzi non mi è mai nemmeno passata per l’anticamera del cervello perché avrebbe creato un conflitto di interessi insuperabile che avrebbe addirittura potuto devastare il rapporto tra noi. Ma anche la scelta di girare questo tipo di film è passata attraverso il suo ‘benestare’. Lui era d’accordo, ma mi sono fatto promettere che sarebbe stata la mia guida durante tutte le riprese. Eravamo anche completamente d’accordo sul fatto che lui non sarebbe mai apparso nella pellicola. I quattro ragazzi del film li ho scelti frequentando per sei mesi un’associazione di transgender di Bologna che mi aveva segnalato mio figlio, un gruppo molto piccolo ma molto all’avanguardia dal punto di vista delle tematiche perché è completamente per la depatologizzazione della questione del cambio di genere. Oggi, praticamente, devi autodenunciarti al tribunale come transessuale. Loro invece portano avanti un’idea che, dal mio punto di vista, è assolutamente condivisibile cioè che chi sei è una questione che riguarda solamente te stesso. Piano piano ho visto questi quattro ragazzi che per me erano quattro moschettieri a tutti gli effetti perché erano molto diversi l’uno dall’altro. Questo per me era un aspetto molto importante perché vuol dire anche raccontare l’idea e uscire da quegli stereotipi a cui noi pensiamo quando parliamo ‘dei trans’. Ma cosa vuol dire ‘i trans’? Non esistono i trans, esistono le persone. Ci sono prima di tutto gli individui che possono anche essere transgender.
“Ho passato molto tempo con i protagonisti, il più delle volte senza portarmi nemmeno la macchina da presa. E questo aspetto ha contribuito a creare un vero e proprio rapporto di fiducia”
Nicolò Bassetti mi racconta come abbia girato pochissimo per realizzare la pellicola, circa 60 ore di filmati in due anni. Una scelta che ha permesso al regista di instaurare un rapporto con i protagonisti del film e che ha permesso a Nel mio nome di essere un’opera estremamente sincera. “La maggior parte del tempo stavo con loro semplicemente seguendoli nelle loro attività quotidiane come la vendemmia o andando a fare le gite in montagna senza neanche portarmi la macchina da presa. Se io avessi portato sempre la cinepresa con me voleva dire che io ero pronto a rubargli qualcosa, se io non la portavo significava che avevo bisogno di entrare nella loro vera e genuina esistenza ed era un atto di fiducia. E questa è stata una scelta vincente. Questo aspetto, oltre ad avere un figlio transgender, dava ai ragazzi una sorta di rassicurazione del fatto che io, comunque, non mi sarei approfittato mai di loro. C’è stata la pazienza di andare a cercare la bellezza e poi parlare con loro e dire ‘Vorrei riprenderti in quella determinata situazione, sei d’accordo?’.
“Non avrei veramente mai pensato che Elliot Page ci avrebbe risposto, ma anche lui si è identificato con le storie raccontate nel film”
Nel mio nome è co-prodotto da Elliot Page attore canadese già conosciuto con il nome di Ellen – e protagonista di famosissime pellicole come Juno e Inception – che sta affrontando una transizione di genere. Ma come è nata la collaborazione tra Page e Bassetti? “Ci tengo veramente a dire che è stato tutto merito di Gaia Morrione, la executive producer del film. È stata lei che ha avuto l’idea ed è stata lei ad avere la tenacia di seguire questa traccia. Confesso che quando me lo disse per la prima volta io ero parecchio titubante e le ho detto: ‘Guarda che secondo me Elliot Page me non ci risponderà mai’. Gaia era invece riuscita a trovare il modo per contattare il suo staff mandandogli una mail a cui, pochi giorni dopo, ci hanno risposto. Un collaboratore di Page ha guardato il film e l’ha apprezzato moltissimo e l’ha fatto vedere all’attore. Page ci ha poi scritto una mail bellissima dicendo che si era profondamente identificato con le storie dei ragazzi e chiedendoci cosa potesse fare per il film. Sinceramente era l’ultima risposta che mi sarei mai aspettato di ricevere da Elliot Page ma che, ovviamente, mi ha riempito di gioia”.
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Immagine di copertina: Nicolò Bassetti a Berlino ©Berlinale