I miei primi 30 giorni a Berlino: ho 19 anni e ho trovato solo un ostello. Tanti disagi, ma anche umanità

Il racconto del mio primo mese in un ostello di Berlino e di come, in qualche modo, alla fine ce l’ho fatta.

Entro in ostello. Ho le valige con me. Nella stanza si sente odore di birra, fiori appassiti e vestiti sporchi. Sulla destra c’è una ragazza dai capelli unti, la vedo da qui, che balla sulla base di una canzone techno nella stanza accanto. Aspetta che una delle lavatrici vicino alla finestra finisca di lavare i suoi vestiti. Un signore mi vede. Sta seduto su una poltrona. Si alza velocemente. “Can I help you?” mi chiede. Con lui vado alla reception. Ho un letto in una camerata da nove per una settimana, non so ancora che ci rimarrò un mese, il mio primo mese a Berlino. Di persone, e personaggi, in quel periodo ne ho incontrati molti e Mehdi, l’uomo delle valigie, è stato il primo.

Non lavora alla reception, dell’ostello è uno dei tanti ospiti, solo che, a differenza mia, considera la struttura come la propria abitazione stabile. Non cerca alternative, o se lo fa, non lo dice in giro.  Ha la rara virtù di non esistere interamente se non nel momento opportuno. Chiunque entri con molti bagagli può vederlo scattare in piedi (per quanto possa “scattare” con quelle gambe tutte ossa) con l’immancabile “Can I help you?” . Se non lo facesse non ci si accorgerebbe di lui.  Poco importa che si tratti di signore anziane o di un armadio che potrebbe sollevarlo tranquillamente anche con la poltrona su cui è seduto.

Chi arriva, a 19 anni, a Berlino per viverci e si ritrova in un ostello finisce per cercare di parlare un po’ con tutti. Ci provai anche con Mehdi, ma con poche soddisfazioni. Sembrava non provasse interesse per alcun argomento, se non quelli sull’immotivata simpatia che la società moderna prova per Gandhi. A qualsiasi delle altre domande rispondeva con borbottii catarrosi e una scrollata di spalle. Successivamente provai a chiedere il motivo di questo suo comportamento al signore della reception. “Chi ha troppi rimpianti nella propria vita tende a praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso”, una risposta che, al contrario, mi convinse solo dell’idea che Mehdi fosse semplicemente uno che beve  un po’ più di quanto possa reggere.

Ad ogni modo Mehdi fu la prima persona che quando arrivai mi aiutò con le valigie e fu anche quella che mi chiamò un taxi per andarmene, ben un mese dopo.

Prima regola: cercare un appartamento prima di partire per Berlino.

Sono arrivata a Berlino ad ottobre del 2021 con un volo da Verona (sono di Brentonico, vicino Rovereto, in Trentino). Prima di partire, purtroppo, non ho avuto la premura di mettermi a cercare alcuna sistemazione stabile. Credevo di poter tranquillamente trovarne una entro i primi 7 giorni dal mio arrivo. Così, un paio di giorni prima di partire, ho prenotato per una settimana una camera condivisa in un ostello in zona Warschauer Strasse. Ero convinta, nella mia ignoranza, che sarebbe stato solo un breve periodo, sufficiente per cercare, trovare e trasferirmi in un appartamento tutto mio, o al limite condiviso con un’altra persona. “Non sarà mica così difficile, Berlino è enorme, chissà quanti appartamenti disponibili ci sono” pensavo. E pensavo male.

In ostello pagavo circa 8 € a notte per le camerate miste. Quelle femminili costavano circa 12 € e non me le potevo permettere. Non avevo chiesto soldi ai miei genitori, se avessi avuto bisogno me li avrebbero dati, ma preferivo cavarmela da sola con i pochi soldi che avevo messo da parte ques’estate.

Chi vive a Berlino già da tempo ed è a conoscenza della difficoltà nel trovare appartamenti probabilmente si starà facendo delle grosse risate sulle mie supposizioni prepartenza. Altrettanto fecero i miei primi compagni di stanza quando spiegai, che sarei rimasta con loro solo una settimana. “Milaya, (tesoro mio in russo), noi cosa pensi che stiamo facendo? Le vacanze?”. Mi chiede uno di loro indicando, con un gesto esageratamente largo, gli altri ragazzi nella camerata fino a fermarsi su un ucraino dai capelli così biondi da sembrare bianchi intento a chiudere dentro una busta quella che aveva tutta l’aria di essere cocaina. “Daniil è 3 mesi che sta qua, è stato più tempo in questo ostello che a casa della sua fidanzata”.

Ricordo bene il suono delle loro risate tanto grasse da fare cigolare gli instabili letti a castello e il rumore, che potevo ascoltare solo io dentro di me, dei miei piani sgretolarsi come un castello di carte sotto il peso della mia ingenuità. Quando il giorno dopo raccontai a Mehdi dei miei sogni infranti fu capace solo di sputacchiare qualcosa come “Sù, se non si è stupidi a 19 anni quando lo si è?”. Lo mandai a quel paese.

Ma i russi avevano ragione e infatti dopo una settimana in ostello ne prenotai un’altra, e poi un’altra e un’altra ancora.

Nel corso dei giorni, e delle settimane successive, mi resi conto gradualmente che c’era gente che non era più riuscita ad uscire da questo loop infinito di settimane su settimane aggiuntive. Mi convinsi che non avrei fatto la schizzinosa, avrei accettato la prima offerta per andarmene via. Avevo già un lavoro. Il secondo giorno del mio soggiorno a Berlino avevo bussato alla porta di tutti i ristoranti italiani che avevo trovato su Google Maps. “Non parlo tedesco, non ho un codice fiscale e non ho mai fatto la cameriera”. Un signore di un ristorante mi disse che mi avrebbe chiamato quando ci sarebbe stato bisogno. “Però se non hai i documenti posso pagarti solo a nero” Iniziai con 8 €, ma dopo un po’ arrivai a 10 €. Finii con il lavorare spesso, quasi ogni sera più la domenica mattina.

Dormivo pochissimo, finivo alle una e mi svegliavo alle tre o alle quattro quando gli ultimi festaioli odoranti di vodka e fumo, tornavano a dormire ubriachi sbattendo e inciampando ovunque e blaterando intricate mescolanze di versi. Ci mettevo tantissimo a prender sonno. Rumori di gente che pregava, gente che si masturbava e gente che faceva l’amore nelle stanze vicino.

Ma poi soprattutto c’era quel tizio greco che russava. Era insopportabile. Russava ininterrottamente, e se c’era qualche breve pausa in cui riuscivi ad addormentarti dopo poco quello re-iniziava più forte  di prima.

Sentivo gli altri sbuffare, rigirarsi, maledirlo in russo. Una volta ho letto da qualche parte un detto che diceva che la Russia è terra d’indulgenza. Credo che chiunque abbia potuto pensare questa cosa non abbia mai assistito ai miei compagni di stanza russi che giocano a poker. Basterebbe quello per capire che non sono inclini all’arte dell’indulgenza.

Dopo 4 giorni di notti insonni, uno di loro minacciò in qualche modo il greco che si fece cambiare di stanza. Da quel giorno ogni volta che incrociava qualcuno di quella camerata abbassava lo sguardo e se ne andava veloce. Mi sentivo un po’ in colpa per lui, ma finalmente sono riuscita a dormire decentemente, eccezione fatta per una notte in cui un ragazzo decisamente strafatto è entrato nella nostra camerata iniziando ad urlare fortissimo. Sembrava che gridasse di dolore, come se qualcuno lo stesse picchiando. In un paio ci siamo alzati per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, senza però ricevere risposta. Dopo una decina di minuti si è addormentato e dopo due ore è uscito dalla stanza come se niente fosse. Quella notte ho rimpianto un pochetto il greco, dopotutto questo tizio aveva ottenuto il letto nella stanza solo perché il poveretto aveva dato forfait.

La vita in un ostello di Berlino, l’organizzazione

I miei luoghi preferiti dell’ostello erano senza dubbio la cucina e i tavolini dove si radunava la gente per fumare. Mentre in quest’ultimi ci poteva andare chiunque, la cucina era solo per pochi eletti. Si trovava al terzo piano ed arrivarci era una vera e propria impresa: tre piani, due corridoi e circa cinque porte di cui una se aperta dal lato opposto faceva scattare l’allarme. In più era necessaria una password quasi impossibile da ottenere. O la riuscivi ad estorcere a Mehdi corrompendolo con qualche lusinga al liberalismo, o ad un qualsiasi indiano presente nell’ostello. Non ho mai capito perché ma gli indiani possedevano in qualche modo le stanze migliori, i gettoni delle lavatrici e le password delle aree chiuse, inclusa appunto quella della cucina. Questo trasformava la piccola stanza con il frigo e i fornelli in una proiezione di un angolo di Nuova Delhi.

Chi aveva la fortuna o sfortuna di dormire nelle immediate vicinanze, sentiva canti sacri per tutto il giorno e un profumo di spezie e curry che invadeva perfino le crepe nei muri.

In pratica la cucina era terra loro, un loro possedimento. Però erano anche di un’ospitalità disarmante e se entravi nella stanza provavano in tutti i modi ad offrirti qualcosa da mangiare o a chiederti di sederti a tavola con loro, il che è abbastanza divertente se si pensa che la cucina era libera a chiunque e quindi non vi era la necessità di “farsi invitare”.

Insieme agli indiani c’era sempre anche un inglese pallidissimo che diceva di essere un professore universitario, ma in realtà ormai non lo era da parecchi anni. Era il tipo di uomo che avrebbe reso nervoso pure il caffè. Stava sempre a dare qualche lezione al malcapitato che aveva la sfortuna di incontrarlo. Era bravissimo a riempirsi la bocca di discorsi sul nulla. Belle parole piene di vento. Girava sempre scalzo e in pantaloni corti e aveva le gambe piene di lividi, ulcere e cicatrici. Non so per quale motivo un giorno venne da me e mi regalò una versione del Piccolo principe in lingua tedesca, aggiungendo con aria seccata che il mio tedesco era una Scheisse. Gli indiani lo consideravano in qualche modo un loro fratello nonostante il suo essere scorbutico non ci azzeccasse nulla con i loro grandi sorrisi e la loro esagerata cordialità.

Il miglior posto in assoluto era però l’area fumatori.

La gente si radunava la sera sulle sedie posizionate sul marciapiede davanti all’ostello, a parlare e fumare sigarette, sigari cubani o erba. La lingua più usata era in alcuni casi l’inglese, in alcuni il tedesco o lo spagnolo, ma per la maggior parte delle volte una lingua fatta di gesti e segni, parole singole in diversi idiomi e risate (che tanto quelle le capiscono tutti). Ogni tanto un ragazzo si metteva a suonare la chitarra e si iniziava tutti a cantare. Altre volte qualcuno riusciva a trascinare fuori una delle casse attaccate alla reception e allora molti si radunavano a ballare la techno per strada, anche sotto la pioggia e con i ratti che si muovevano velocemente tra un tombino e l’altro. Ho avuto le migliori conversazioni con la gente seduta al freddo a rollare tabacco e chiudere cartine.

Mi ricordo per esempio di questo ragazzo israeliano che aveva appena finito la leva obbligatoria nel suo Paese e, come tanti come lui, aveva deciso di dedicare alcuni mesi per viaggiare e mettere a tacere la testa per un po’. Era tremendamente composto e pacato e aveva la stessa intonazione di voce sia quando ordinava una birra, sia quando raccontava dei compagni che, durante la leva, si erano buttati dalla finestra davanti a lui. Però ad ogni tiro di sigaretta malediceva il tempo, le donne, Dio ed il mondo intero.

Le altre ragazze in ostello: Mia e Marion.

Avrei tanto voluto fargli conoscere Mia, una ragazza in stanza con me durante la terza settimana. Era scappata da Israele perché dopo essersi rifiutata di sottoporsi alla leva militare era stata esclusa completamente dalla società. I suoi genitori la consideravano una delusione e gli amici non le parlavano più. Non era nemmeno riuscita a trovarsi un lavoro e così ha preferito venirsene in Europa. “Sogno un mondo in cui ci sarà una guerra ma nessuno vi parteciperà” diceva mentre si lavava i denti. Fu una delle pochissime ragazze che ebbi in stanza.

Un’altra si chiamava Marion, era francese e parlava un italiano così strano che sembrava che ogni parola fosse ricamata a punto e croce, nonostante ciò aveva una voce talmente dolce che la lentezza nel formulare frasi era solo un’aggiunta quasi piacevole. Aveva 17 anni ma ne dimostrava forse 15 e portava sempre questi orecchini i cui pendenti erano due piccolissime bottiglie di vodka, diceva che le aveva fatti lei a mano. Nonostante parlasse italiano cercavo di usare comunque solo l’inglese così dividevamo la fatica a metà.

In realtà non parlavamo molto. Io lavoravo tutto il giorno e quando tornavo la sera avevamo giusto il tempo di una sigaretta insieme. Marion dormiva per la maggior parte del pomeriggio, si svegliava all’ora di cena e poi andava per tutta la notte in giro per Berlino a vendere erba e fumo, quando serviva anche cocaina.

Era una cosa che mi metteva a disagio, sia perché, per dirla in maniera molto materialista, mi rendevo conto che lavoravo il triplo, ma guadagnavo meno della metà rispetto a lei, sia – soprattutto – perché era un contesto con cui non volevo avere a che fare perchè se ci pensavo troppo mi saliva una sensazione di amarezza fin dentro alle ossa. Volevo convincerla a cambiare questa condizione, per quanto sapessi che non aveva una situazione economicamente facile. Ad ogni modo non ebbi fortuna.

Ogni volta che cercai di persuaderla al riguardo, scrollava le spalle e mi snobbava, non solo sul momento, ma per tutto il resto della giornata. Quando se ne andò realizzai per la prima volta quanto l’esperienza in ostello mi stesse servendo per aprire di più gli occhi sul mondo. Forse ero cresciuta in una bolla. E solo per questo ora mi meravigliavo per molte cose. Certo è che prima non avrei mai pensato a quanta umanità potesse nascondersi in un posto così sporco e misero come un ostello berlinese.

Gli ultimi giorni in ostello: l’addio

Il mese in ostello, con tutti i suoi difetti, non fu da buttare, anzi. Alla lunga si creò un clima famigliare.  Nonostante Berlino a novembre comincia a prendere le sembianze di quel freddo e cupo mostro che la caratterizza in inverno, tra i corridoi e i dormitori dell’edificio sembrava ci fosse sempre il sole.

Questo mio improvviso moto d’affetto per quel postaccio forse fu dovuto anche al fatto che l’ultima settimana avevo avuto il regalo (forse perché ormai venivo considerata dalla reception anch’io come uno dei fossili dell’ostello) di avere una camera condivisa di solo tre letti e bagno privato incluso. Una sistemazione che rappresentò per me il paradiso.  La condivisi con un’argentina e uno spagnolo che mi giurava di essere un artista famoso in tutta Madrid. Sulla scrivania aveva plichi di piccoli cartoncini di carta che lui stesso dipingeva, con scritti i suoi contatti sulla parte posteriore.

Alcune sere organizzava dei concerti improvvisati con il suo ukulele sulla strada di fronte all’entrata. Mezzo ostello lo odiava per questo e il sottofondo di tutte le sue canzoni era un brusio di bestemmie e maledizioni in lingue che nemmeno riconoscevo. A me regalava tantissima allegria. E quando mi affacciavo dalla finestra e lui fingeva di dedicarmi delle serenate, mi migliorava tutta la giornata. Fu una delle persone che più mi dispiacque dover salutare. Passava le giornate a consegnare i suoi bigliettini da visita fatti a mano a chiunque persona incontrasse. Famoso o no, il nostro pavimento era tutto sporco di pittura. Tornò in Spagna dopo tre giorni, ma i suoi bigliettini li trovai nei giorni a seguire in tutti i locali di Alexanderplatz in cui passai.

Biglietti da visita artistici appoggiati sulla scrivania della mia stanza.

Biglietti da visita artistici appoggiati sulla scrivania della camerata.

Fu una delle persone che più mi dispiacque dover salutare, insieme alla donna delle pulizie. Un giorno mentre ero particolarmente triste mi disse: “Quando ti senti così pensa al fatto di esser viva e canta una canzone. Fidati, pulisco la merda di estranei da 25 anni, se non affrontassi le cose così mi sarai già tagliata le vene da almeno 24”. Non so se mi mise più tristezza o amarezza ma un pochino mi tirò sù il morale.

Come detto quella fu l’ultima mia settimana in ostello. Un turco buddhista con un appartamento di Moabit accettò la mia richiesta dopo aver letto un suo annuncio su un gruppo Facebook, 500 € al mese, per un sgabuzzino con due materassi per terra che accettai un po’ per disperazione e un po’ perché a quel punto desideravo solo una doccia lunghissima e un po’ di privacy. Ci rimasi invece solo un mese: lui faceva riti satanici abbastanza inquietanti, l’odore del narghilè era ormai su tutti i miei vestiti e in fatto di pulizia, l’ostello in confronto come le terme di Merano.

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