La nostra intervista all’archistar Daniel Libeskind: “Berlino è ancora un ‘esperimento umano’, un luogo continuamente proiettato nel futuro”
Daniel Libeskind è sicuramente uno degli architetti più famosi al mondo, quello che oggi viene definito un’ ‘archistar’, quel gruppo ristretto di progettisti che con i loro lavori hanno riscritto la storia dell’architettura contemporanea, iniziatori di nuovi stili e di nuove tecniche costruttive. Berlino Magazine ha avuto il piacere di poterlo intervistare
Libeskind è sicuramente una delle archistar più interessanti non tanto per i suoi rivoluzionari lavori quanto per il fatto che il suo lavoro progettuale non si pone come il semplice ‘progettare’ un edificio, ma si inserisce in una complessa rete di convergenze che fondono Memoria, cultura, aspetti sociali, urbanistici e ambientali. Abbiamo incontrato Libeskind a Berlino all’interno delle sale del Jüdisches Museum, primo edificio da lui realizzato, la cui architettura rivoluzionaria ha influenzato generazioni di architetti. L’occasione era il conferimento del Premio per la Comprensione e la Tolleranza 2021 – “È un premio che fa capire il significato della parola intolleranza in un mondo che è ancora pieno di incomprensioni. È un vero onore ricevere questo premio” ci ha detto – importante riconoscimento che, negli anni passati era stato assegnato a personalità di spicco come Angela Merkel e il direttore d’orchestra Daniel Barenboim. Con Libeskind abbiamo parlato dell’importanza della Memoria e di come gli edifici possano preservarla, del futuro di Berlino e, ovviamente, di architettura.
“Tutto il processo iniziale di un nuovo progetto parte dalla Memoria. È, per usare un termine del mondo dell’architettura, una parte essenziale delle fondamenta”
Alcuni degli edifici più famosi progettati da Daniel Libeskind sono irrimediabilmente legati a tragici fatti storici che hanno segnato la nostra storia, basti pensare al già citato Judische Museum, al Memoriale per le vittime dell’Olocausto ad Amsterdam o alla ricostruzione del World Trade Center di New York. È stato quindi naturale chiedergli subito come la Memoria di questi tragici episodi abbia influenzato la progettazione degli edifici e quale ruolo gioca il ricordo del nostro passato nel suo lavoro.
“La Memoria è incredibilmente importante non solo per me e per il mio lavoro ma per tutta l’umanità . È, per usare un termine architettonico, una parte essenziale delle fondamenta della nostra società e della sua evoluzione. Senza la memoria siamo persi. Tutti i miei lavori si ‘appoggiano’ su un basamento che parte dalla Memoria, non è semplicemente un elemento ‘aggiunto’. Per me tutto il processo iniziale di un nuovo progetto parte dalla Memoria”. I genitori di Daniel Libeskind erano sopravvissuti alla Shoah e alcuni membri della famiglia di Libeskind sono rimasti vittime della follia nazista ma, come ci spiega, “L’esperienza diretta vissuta dai miei genitori nei campi di concentramento non ha influenzato progetti come il Jüdisches Museum di Berlino o il nuovo Memoriale di Amsterdam.”
“Loro avevano una visione del mondo unica, differente rispetto a me, per il semplice fatto che io non ho mai vissuto le loro sofferenze. Con i miei genitori non abbiamo mai parlato di quel capitolo della loro vita, in realtà non avevano bisogno di raccontarmelo con le parole. Potevo capire comunque benissimo, anche solo guardandoli negli occhi, cosa avevano passato. Riflettendo su tutte le persone che hanno perso la loro vita nell’Olocausto, tra cui anche membri della mia famiglia, cominci a capire la dimensione dei crimini che sono avvenuti, cominci a vedere la dimensione di qualcosa che non potrà mai essere capito da noi molto facilmente che è, alla fine, la vastità della violenza e della follia che si è concentrata nel XX secolo. Una sofferenza che i miei genitori hanno vissuto sia sotto i nazisti che sotto i comunisti. Loro hanno vissuto l’intera gamma del male che ha attraversato il XX secolo”.
“Solo ora la popolazione e le autorità hanno cominciato a pensare all’immagine di Berlino con cognizione di causa. Cosa Berlino avrebbe potuto essere, che cosa è adesso, che cosa potrebbe diventare nel futuro”
Berlino è una delle città più ‘complesse’ dal punto di vista storico. È una città che ha vissuto in prima linea alcune delle vicende storiche più importanti che hanno segnato il ‘900, dalla Seconda guerra mondiale alla Guerra Fredda. Berlino è stata quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti degli Alleati e, a causa del Muro, molte delle zone che oggi pullulano di vita erano delle desertiche distese. Una vera e propria ricostruzione è iniziata nei primi anni ’90, un’opera di riedificazione che ha completamente ridisegnato il profilo della città. Ma quanto questa ricostruzione ha rispettato la Memoria, la cultura e l’identità di Berlino? “Questa è una bella domanda. Gran parte della ricostruzione è stata fatta molto velocemente dopo la caduta del Muro nel 1989. Non ci sono state molte discussioni tra le autorità e i costruttori riguardo a come impostare un piano omogeneo di ricostruzione o, semplicemente, anche se o quale stile seguire” ci spiega Libeskind. “È stata una ‘marea’ – senza uno scopo, senza una precisa progettualità – che, semplicemente, è accaduta e ha travolto la città. Penso che solo ora la popolazione e le autorità abbiano cominciato a pensare all’immagine di Berlino, cosa Berlino avrebbe potuto essere, che cosa è adesso, che cosa potrebbe diventare nel futuro. Basti pensare alle discussioni e alle polemiche che sono state fatte intorno alla ricostruzione del Berliner Schloss – il Castello di Berlino – comunque ‘distaccate’ rispetto alla vera domanda da porsi che è ‘che città dovrebbe essere Berlino?’ Dovrebbe essere come la città che era prima del 1933? Potrebbe essere come quella? O dovrebbe promuovere un’architettura ‘liberata’ che non sia tenuta in ostaggio da un limitante stile architettonico?”.
Uno dei temi più ‘caldi’ a Berlino è sicuramente la gentrificazione, e la polemica legata all’indiscriminata costruzione di nuovi edifici anche in alcuni siti di rilevanza storica e culturale per la città come, ad esempio, l’East Side Gallery o il Mauerpark. Abbiamo chiesto a Daniel Libeskind la sua opinione riguardo a questo tema. “Penso che la città debba andare avanti, evolversi. Deve rinnovare sé stessa, rispettando comunque il suo vissuto, ma non può essere soltanto un insieme di ‘rovine’ che ci rimandano a un passato drammatico. Ma questo è uno sviluppo che deve essere portato avanti con discussioni e dibattiti. Non deve essere un processo che si limiti a vendere lotti di terreno a grandi costruttori dove costruire indiscriminatamente, ma bisogna anche guardare ai bisogni e ai diritti di chi abita a Berlino. Se ci fosse questo dialogo sarebbe un bene per Berlino – che potrebbe quindi diventare una città veramente progressista – e il suo stesso futuro che, per quanto riguarda l’aspetto urbanistico, sarebbe migliore e più equo”.
“Per gli architetti c’è veramente molto da imparare da questa città. Ci sono frammenti di tutti gli stili e c’è una vera modernità che si respira in tutta la città più che in altri luoghi al mondo”
Abbiamo poi chiesto a Daniel Libeskind se ci fosse un particolare edificio che lo abbia colpito a Berlino. “Mio Dio, ovviamente ce ne sono moltissimi. Alcuni degli edifici più importanti costruiti nel XX sono stati realizzati qui e ancora esistono. Mi ha molto colpito anche il lavoro di rinnovamento del Gerlach Building all’interno dell’Università Humboldt, soprattutto per come è stato rispettato il passato dell’edificio. Berlino, a livello architettonico, è una città per me molto ricca e affascinante nonostante la distruzione dalla Seconda Guerra mondiale. C’è veramente molto da imparare da questa città. Ci sono frammenti di tutti gli stili e c’è una vera modernità che si respira in tutta la città, più che in altri luoghi al mondo. Ancora oggi gli architetti di tutto il mondo si ‘sfidano’ a Berlino. La città è, per gli architetti, un vero e proprio esperimento umano, non è una città finita e non è la città che era in passato, è un luogo che continua ad essere proiettato nel futuro. È una città vibrante, incredibile e interessante”.
“Non riuscirei a definire precisamente il mio stile, ma c’è, in tutto il mio lavoro, un senso di collegamento tra tre aspetti”
Fa uno strano effetto incontrare un artista che in molti, me compreso, hanno largamente studiato durante gli anni dell’Università. Sui vari libri di architettura contemporanea lo stile di Libeskind viene definito associandolo alle più svariate correnti artistiche: neo-costruttivismo, architettura high-tech, futurismo, post-modernismo. In un dedalo di definizioni date da molteplici storici dell’arte, viene naturale chiedere al diretto interessato quale sia la definizione più giusta per il suo stile. La risposta che ci ha dato Libeskind getterà nel panico e nello sconforto tutti gli studenti di storia dell’architettura contemporanea. “Non riuscirei a definire il mio stile. Anzi neanche lo chiamerei stile dato che non ne seguo uno predefinito” ammette Libeskind. “È qualcosa che è contemporaneo e che, ovviamente, si è definito nel corso degli anni anche rispetto ai cambiamenti della società. Quindi non riuscirei a definire precisamente il mio stile, ma c’è, in tutto il mio lavoro, un senso di collegamento tra tre aspetti che, apparentemente, possono sembrare scollegati: presente, passato e futuro. Tre elementi che trovano compimento nella mia architettura e che vengono sublimati dalla fusione di materiali, spazio e luce. Che tipo di stile ne consegue? Non riuscirei proprio a definirlo. Spesso c’è il bisogno di utilizzare delle etichette ma, nel corso degli anni, noi dimentichiamo queste etichette e ci ricordiamo principalmente degli edifici. Ed è questo l’aspetto più importante e che mi interessa di più”.
“Il linguaggio dell’architettura è pura emozione”
“L’architettura può essere paragonata alla musica. Cosa voglio comunicare con un brano? Cosa voglio comunicare con un edificio? Io, personalmente, penso che il linguaggio dell’architettura sia pura emozione. È qualcosa che voglio comunicare ma che non posso fare con le semplici parole ma che può essere trasmesso, attraverso un edificio, in una maniera potentissima. Non è necessariamente solo un messaggio, ma c’è anche la volontà di comunicare la sensazione che c’è ‘altro’ riguardo a chi siamo e dove siamo. Questo è parte del linguaggio che tutti gli architetti ‘parlano’ e che viene recepito attraverso gli occhi di chi guarda, così come la musica entra nelle orecchie e stimola un’emozione particolare”.
“Per gli architetti, adesso, la tecnologia è importantissima e fantastica, ma, soprattutto le nuove generazioni, devono imparare a controllarla e non diventarne schiavi”
Il velocissimo progresso tecnologico ha investito tutti gli aspetti della nostra vita negli ultimi decenni. Un’evoluzione che non poteva non travolgere anche il mondo della progettazione architettonica. Da una parte è stato un avanzamento necessario e utile per il lavoro progettuale degli architetti ma non bisogna, come ci spiega Libeskind, affidarsi completamente alla tecnologia. “Il progresso della tecnologia nell’ambito dell’architettura ha cambiato tutto. Fa parte dello sviluppo tecnologico e scientifico che caratterizza il nostro tempo, ma dobbiamo essere abili a controllare questi strumenti, non dobbiamo diventare loro vittime. Nell’architettura, oggi, gran parte della progettazione avviene attraverso un computer o utilizzando addirittura l’intelligenza artificiale. La tecnologia ha portato molti aspetti positivi nel mio lavoro permettendo di generare idee che, una volta, potevamo solo pensare ma difficilmente realizzare concretamente. Il Jüdisches Museum è probabilmente uno degli ultimi edifici del XX secolo che è stato completamente disegnato a mano, senza computer, utilizzando squadre, tecnigrafi, penne, matite e altri strumenti che oggi si utilizzano sempre meno. Ovviamente i computer hanno reso la vita degli architetti più semplice ma è stato perso qualcosa. Credo che si sia perso un certo senso di connessione reale e genuino con questo lavoro. La tecnologia è importantissima e fantastica, ma, soprattutto le nuove generazioni, devono imparare a controllarla e non diventarne schiavi”.
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