«Prima Berlino, poi Londra. Vi racconto come è vivere da immigrata italiana, tra doppi lavori e malinconia»
Mi sono messa in disparte, passando le giornate e sentire di navi, immigrati, Salvini, limitandomi a leggere le opinioni comuni specialmente sui social, di amici, conoscenti e non, e sono stata sempre zitta ma ho pensato tanto, ed ora sento di voler condividere delle emozioni che non posso nascondere o evitare visto che sono 5 anni che mi sono trasferita prima a Berlino e poi, l’anno scorso, a Londra.
Ieri mentre facevo la cameriera in un bar a Londra (uno dei due lavori che svolgo, oltre alla ballerina, per mantenermi), è venuta una famiglia inglese. Hanno bevuto un paio di birre cantato ballato e passato una bella serata tutti insieme. Nell’angolo a osservarli c’ero io. Da anni ormai, quando mi si presenta davanti un quadretto del genere, ho il magone, sono leggermente gelosa. Vorrei essere io la figlia seduta al tavolo con mamma papà e mia sorella, invece no, io sono quella che torna a casa da sola, cuffie nelle orecchie e occhi ovunque perché “sei una ragazza, non si sa mai che cazzo ti può succedere per strada” (fidatevi, Londra non è proprio Locorotondo, in Puglia, la mia cittadina). Non ho paura, ma mille e mille volte ho pensato che se mi dovessero fare del male, ne soffrirei solo per il dolore che la cosa causerebbe alla mia famiglia, lontana 3000km circa. Non per il fatto in sé.
Vivere all’estero ti regala tante soddisfazioni, conoscenze e momenti da ricordare oltre che lavori pagati dignitosamente e la speranza di farcela anche in una professione difficile come il ballo, ma di cose spiacevoli me ne sono successe tante in questi anni, per strada e non e proprio per questo motivo le ho sempre tenute nascoste, per non far preoccupare nessuno, famiglia, amici, conoscenti. Voi lo sapete cosa si prova quando passi la giornata peggiore della tua vita e l’unica cosa che vorresti è un abbraccio di papà, un bacio di mamma, una chiacchierata infinita con la sorella mentre si girovaga in macchina a tarda notte e invece sei a a circa 3000km e ti devi stampare un sorriso in faccia perché devi andare a lavorare in una città che se ti fermi un attimo ti divora vivo? Una città che non è la tua, gente diversa, culture che non ti appartengono, ma che impari ad abbracciare?
Lo sapete cosa si prova quando dopo un paio di settimane in una nuova città, in una nuova nazione, non capisci nulla di ciò che la gente dice intorno a te perché non sai la lingua e vai al supermercato e ti viene una crisi di panico perché nessuno ti capisce, nessuno ti aiuta, e tu non trovi il pane? Sì, a Berlino una volta mi prese il panico perché non trovavo il pane. E non riuscivo a chiedere aiuto. E tutti mi osservavano piangere con un’espressione tra lo sdegno e l’imbarazzo condita dalla domanda interna: “Ma questa da dove viene?”.
Lo sapete cosa si prova quando hai urgentemente bisogno di un documento per lavorare, aspetti due mesi per l’appuntamento, arrivi e ti liquidano in 2 minuti dicendoti tramite google translate “devi andare via, dovevi venire col formulario già compilato, noi non possiamo perdere tempo con te che manco parli tedesco”, ma io che ne sapevo che dovevo andare col formulario compilato essendo il formulario in tedesco, il sito in tedesco, tutto in tedesco e io a malapena sapevo dire “buongiorno buonasera” e conoscevo due cristi in croce in tutta Berlino? Di nuovo panico, di nuovo la vergogna nel sentirsi fuori luogo, persa, nell’angolo dell’ufficio, “e ora chi mi aiuta?” e non mi aiuta nessuno perché sono sola e pure straniera. Nelle orecchie hai l’eco delle parole del capo: “se non hai quel documento non ti posso assumere regolarmente” e così rimani lì cercando una soluzione finché uno dei 30 impiegati che ha sentito prima le tue difficoltà a compilare il documento mi raggiunge e, sforzandosi di parlare in inglese, mi dice “aspetta che finisco il turno, lo compiliamo insieme”.
Lo sapete cosa si prova ad essere additati “ah, italiana, gli italiani bla bla bla…”, o a non trovare casa perché “solo gente che parla la lingua”, a essere molestata mentre faccio security nello stadio di Wembley, il mio secondo lavoro, da un collega che solo perché é inglese ha pensato di trattarmi come una sottospecie di clandestina indesiderata “guarda che tra un po’ con Brexit tu qua non ci puoi più restare (qualcun altro avrebbe detto “la pacchia è finita”), però sei così bella, esci con me, ma solo se andiamo a letto insieme e io ti faccio avere la cittadinanza”, e di nuovo mi sono sentita così sola. Non potete capire la vergogna che ho provato quando la voce si è sparsa tra i colleghi ed erano tutti lì a fissarmi come se provassero pena e mi sono sentita minuscola (una donna straniera in mezzo ad una maggioranza di colleghi uomini per lo più inglesi, vi lascio immaginare)?
Lo sapete poi cosa si prova quando ti arrivano le foto della tua famiglia seduta a tavola, tutti insieme, e tu sei felice per loro ma allo stesso tempo ti sale un’angoscia infinita perché sai che ti stai perdendo tante, troppe cose, la nonna che diventa sempre più vecchietta e sempre più dolce, i genitori che anche loro diventano grandi e li ami ogni giorno di più, la sorella che è la tua metà ed averla lontana è come se ti mancasse un polmone, i cugini che improvvisamente hanno 20 anni e tu te li ricordi quando erano dei cuccioli, le lauree, gli zii e le loro battute, gli abbracci e le risate, i progressi, le malattie, le novità. Il mio cane, non so spiegarvi il dolore al cuore che mi prende quando penso che non ci sarà per sempre e io non sono lì tutti i giorni ad abbracciarlo. Mi viene da piangere.
Potrei andare avanti all’infinito, questi sono solo un paio dei pensieri e storie di un’IMMIGRATA, perché il fatto che io sia bianca e italiana non significa che io sia da definire in maniera diversa rispetto a quelli che stanno sui barconi. Ho “rubato” il lavoro agli indigeni in ogni posto in cui ho vissuto, devo essere sincera a volte ho infranto le leggi locali (oddio criminale!!!), qua in Inghilterra alcuni neanche mi ci vogliono (Brexit), e chissà quante volte io ho detto “sono italiana” e gli altri hanno capito “mafia”.
Quando riversate odio sugli immigrati (e odio genera odio), quando urlate “chiudete i porti”, quando li vedete morti annegati e non vi si smuove nulla dentro, quando pensate che siano il cancro della società e che ogni problema sia relativo alla loro presenza, pensate a me e a quelli come me, siamo i vostri figli, nipoti, cugini, amici, conoscenti, ex compagni di scuola, siamo immigrati anche noi e non importa di che colore sia la nostra pelle o che passaporto abbiamo, noi non siamo migliori o peggiori di loro, noi siamo esattamente come loro, solo siamo nati sotto una stella più luminosa e sicuramente con meno motivi per andar via dal nostro porto sicuro. Un insulto a loro è un insulto anche a noi. Il male che augurate a loro, è come se lo auguraste a noi. Una porta sbattuta in faccia a loro è una porta sbattuta in faccia a noi, i vostri figli, nipoti, cugini, amici. E’ questo che volete?
Pensateci, fatemi questo favore.
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