«La storia di mio padre Giovanni Esposito, ucciso dai nazisti nella cava di Treuenbrietzen vicino Berlino»
La triste storia di Giovanni Esposito
«Da piccola credevo che mio padre sarebbe tornato dalla guerra in Germania da un giorno all’altro. Nessuno mi aveva detto che era morto. Io, quando avvenne la tragedia, ero ancora in fasce. La verità l’ho scoperta, purtroppo, solo dopo anni…». A parlarci così è Annamaria Esposito, classe 1943, figlia di Giovanni Esposito, una delle vittime del tristemente noto eccidio della cava di Treuenbrietzen. «Mio padre era nato a Sant’Anastasia in provincia di Napoli il 13 dicembre del 1916. Era arruolato in aviazione come marconista di bordo. Aveva fatto la scuola specialisti trasmissioni a Siena. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il 10 giugno del 1940, dopo soli 70 giorni di matrimonio, fu chiamato alle armi. Fu mandato in Africa dove aveva già combattuto anni prima. Nel febbraio del 1943 ebbe un congedo per tornare a Napoli e conoscere mia sorella, che era nata mentre era nel continente nero. È proprio in quel periodo che venni concepita io. Ad agosto, essendo mia madre avanti con la gravidanza, mio padre chiese degli ulteriori giorni di licenza, purtroppo non gli furono accordati. Partì per Bologna per non disertare anche se gli americani erano sbarcati a Paestum, vicino Salerno, il 9 settembre del 1943. Quando sopravvenne l’armistizio, mentre si trovava all’aeroporto del capoluogo emiliano, mio padre fu catturato così come tutti i militari italiani che si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò».
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Come avvenivano le comunicazioni tra i lager e i familiari
«Di lui mia madre non seppe nulla finché non arrivò una cartolina proveniente dalla Germania in cui si informava della sua detenzione. Non vi era scritto la città precisa di provenienza né c’era scritto cosa mio padre stesse facendo lì. All’epoca non si era a conoscenza dei campi di concentramento, figuriamoci dell’Olocausto. Le poche comunicazioni con gli internati avvenivano tramite la Croce Rossa. Gli addetti passavano per i vari lager ai primi di ogni mese. Di mio padre arrivò solo una cartolina in cui ci disse che stava bene e che era lieto di ricevere nostre notizie. Nel 1945 però la Croce Rossa si ritirò dalla Germania e di mio padre non giunse più nessuna cartolina. Io ero venuta al mondo circa due anni prima, l’11 novembre del 1943, ma non credo che mio padre seppe che gli era nata un’altra figlia».
Come la famiglia di Giovanni Esposito seppe della sua morte
«Come fosse finita l’esistenza di mio padre emerse più di 50 anni dopo quando io, mia sorella e mia nipote siamo riuscite a risalire al lager dov’era rinchiuso. Questo perché in quella cartolina postale proveniente dalla Germania vi era un numero di matricola e la scritta Stammlager III. Cercammo su internet il significato di quella parola tedesca. Stava per “campi di prigionia tedeschi per i prigionieri di guerra”. Tramite la matricola risalimmo al campo dov’era rinchiuso mio padre e, di conseguenza, a Antonio Ceseri. Grazie ad una foto, dopo qualche tentennamento, Antonio riconobbe mio padre. Ci disse che era uno di quei 131 italiani andati con lui Il 23 aprile del 1945 nella cava di Treuenbrietzen, a 70 km da Berlino. I nazisti spararono a tutti i presenti. Solo in quattro riuscirono a sopravvivere all’eccidio, gli altri rimasero “ignoti” tra cui mio padre. I nomi di quei quattro sono Germano Cappelli, Vittorio Verdolini, Edo Magnalardo e Antonio Ceseri. La strage tedesca affondava le radici nella proclamazione dell’Armistizio italiano dell’8 settembre 1943 quando i militari italiani furono posti dinanzi a una scelta: continuare a combattere per la Repubblica di Salò oppure essere deportati in Germania come internati militari. 600.000 soldati italiani si rifiutarono di andare al fronte e diventarono così prigionieri di guerra. 160 vennero trasferiti nel lager di Treuenbrietzen dove si producevano munizioni per l’esercito nazista. Qui venivano scherniti, picchiati ogni giorno e costretti a dormire nelle stalle insieme agli animali. Alcuni morirono di stenti. II 21 aprile 1945 nel lager arrivò un carro armato russo. Si pensò che era la fine della prigionia, ma così non fu. I soldati russi avvertirono i prigionieri che si trattava di un’avanguardia, che il fronte era ancora lontano. Appena i sovietici si allontanarono, le ss tedesche rientrarono nel campo e portarono i 131 italiani rimasti in vita fino a quel momento nella vicina cava di sabbia. Lì vennero fucilati e ricoperti con la sabbia.
«Per lo stato italiano mio padre è un “disperso”»
«Noi non eravamo sicuri che mio padre fosse tra i prigionieri uccisi nella cava. Prima della testimonianza di Ceseri molti dei cadaveri riesumati dalla cava erano stati identificati solo grazie ai documenti che i prigionieri portavano con sé. Mio padre, non so per quale motivo, non aveva nessun tipo di documento identificativo dunque era stato considerato dallo stato italiano semplicemente come “un disperso”. Non solo: non ci erano mai state date le liste delle persone presenti nei lager. Durante la guerra fredda molti fascicoli riguardanti il nazismo e i lager erano considerati top secret e dunque minimamente consultabili. Ceseri, che purtroppo è morto a dicembre 2017, era dunque l’unico che è riuscito a dare un epilogo, se pur triste, al destino di mio padre»
«Cosa mi rimane di mio padre»
«Ciò che mi rimane del mio papà sono delle lettere che si scrivevano prima dell’arresto lui e mia mamma e tante fotografie. Mio padre è uno degli ignoti di Treuenbrietzen e riposa, sono sicura, nel Cimitero Militare Italiano d’Onore di Berlino-Zehlendorf. Non mi interessa sapere quale sia la sua tomba. Lui è lì, in pace, insieme ai suoi compagni di sventura».
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© Foto concessa da Annamaria Esposito – Giovanni Esposito