The Cut, in Germania esce il nuovo film di Fatih Akin. Ecco la recensione
Era il 2004 quando l’appena trentenne regista turco-tedesco Fatih Akin vinceva l’Orso d’Oro a Berlino con La sposa turca (titolo originale: Gegen die Wand), struggente storia d’amore tra due emarginati sociali che, abituati a combattere contro i duri colpi che la vita sferza, sono incapaci di riconoscere i propri nobili sentimenti reciproci. Fin da subito nelle intenzioni del regista c’è la volontà di dare vita ad una trilogia su “Amore, Morte e Demonio” ed infatti nel 2007, il progetto prosegue con Ai confini del paradiso (Auf der anderen Seite), in cui il tentativo dei diversi personaggi di ricostruire il proprio passato per affrontare il futuro sembra tendere sempre e soltanto verso storie di dramma e morte.
Ora, a distanza di dieci anni dall’apertura della trilogia, The Cut la conclude. È la volta di affrontare il tema del demonio e del male, intesi come forze innate nella natura umana. Come si possono spiegare certi avvenimenti della storia antica e recente se non con la dilagante e quasi infettiva presenza del male nell’uomo? Com’è possibile che l’idea malsana e contro natura di cancellare metodicamente un’intera etnia da una nazione possa avere seguito tra la popolazione? Con The Cut Fatih Akin prende infatti in esame il tema più che mai scottante del genocidio armeno perpretatosi in Turchia tra il 1915 e il 1921. Tuttora lo stato turco non riconosce ancora il cosiddetto “trasferimento” degli Armeni attraverso il deserto come un genocidio e nel mondo solo 21 paesi, tra cui l’Italia, ma non la democratica America, lo hanno fatto.
Il solo nominare la parola “genocidio” in Turchia può tuttora costare diversi anni di carcere, ma, come dichiara Akin stesso, la volontà di analizzare il tema della storia del popolo armeno è stata quasi una necessità dettata dalle sue stesse origini. “Non ho scelto io il tema, ma è stato questi a scegliere me. Essendo io figlio di genitori turchi, l’argomento mi ha sempre toccato. Soprattutto il fatto che fosse un tabù e che a casa non se ne parlasse. E sempre, quando qualcosa è proibito, divento attento e curioso”.
E certamente non si può che definire attento il lavoro di documentazione di Akin. Questi si è rivolto direttamente ad esperti come Wolfgang Gust, ex redattore dello Spiegel e autore di libri sull’impero turco e sull’Armenia, e a Taner Akcam, docente americano esperto di storia del genocidio, oltre che all’assistenza costante di una consulente storica. Prima di girare e consapevoli del fatto che in ogni caso le scene non sarebbero state filmate nei luoghi originali in cui si svolge la storia, Akin e parte della troupe visitano comunque diverse città tra Turchia e Armenia con l’intenzione di verificare le fonti e di raccogliere informazioni necessarie alla ricostruzione di tali paesaggi in Giordania, luogo prescelto per girare.
Akin segue in questo modo le tracce di Nazaret Manoogian (Tahar Rahim), protagonista del film, costretto dalla gendarmeria turca ad abbandonare moglie e figlie per andare a costruire in stato di schiavitù la linea ferroviara che avrebbe dovuto attraversare il deserto fino a Baghdad. Inerme ed annientato dal duro lavoro deve assistere quotidianamente all’esodo di carovane di uomini, donne e bambini armeni. Una volta riuscito a scappare, suo unico scopo sará quello di ritrovare la famiglia all’interno del campo profughi, ma qui lo scenario è impressionante: solo morti e fame. La speranza di poter abbracciare i suoi cari si annulla del tutto fino a quando non gli giunge notizia che le figlie siano riuscite a scappare in tempo. Nazareth inizia così un viaggio che lo porterà fino a Cuba e al North Dakota, fornendo così ad Akin la possibilità di fare un omaggio all’epos dei film western e infatti i riferimenti alla drammaturgia di Sentieri selvaggi di John Ford sono assai espliciti.
Fatih Akin ammette invero di aver partorito un film che in diverse scene celebra il proprio amore per il cinema e per determinati autori come Charlie Chaplin, Elia Kazan e il turco Yilmaz Güney.
Qualche parola in più va infine dedicata alla splendida interpretazione di Tahar Rahim, che già aveva dimostrato agli esordi di carriera la propria bravura nel film Un profeta di Jacques Audiard. In The Cut Rahim è presente in ogni singola scena per le quasi tre ore del film; a rendere questa onnipresenza ancora più sorprendente è il fatto che abbastanza presto nella storia a Nazareth vengano recise le corde vocali per cui non pronuncerà più nessuna parola nell’arco del film e Rahim si deve quindi confrontare con l’ulteriore difficoltá di caratterizzare il proprio personaggio senza l’aiuto dei dialoghi.
The Cut diventa in questo modo un film molto fisico, ma allo stesso tempo simbolico di una recisione della forza vitale di un uomo e di un popolo. Un taglio che difficilmente si potrà rimarginare.