Riflessioni in sella ad una bici nel pieno centro di Berlino
Non avevo mai pienamente compreso il futurismo così bene fino a poco tempo fa. Passeggiavo in bicicletta lungo un famoso e trafficato viale nel pieno centro di Berlino.
Come molte delle tematiche affrontate frettolosamente tra i banchi di scuola, spesso si acquisiscono i concetti in maniera passiva, astratta e sterile. Senza mai riuscire ad integrarli e contestualizzarli all´interno di strutture di pensiero più immediate, pratiche e quotidiane.
Ora, del futurismo ricordo di aver scritto appena una mezza pagina, seguita da una altrettanto scarsa sul dadaismo, per il mio esame di maturità al liceo. Da precisare che erano stati selezionati appositamente per l´esigua quantità di materiale presente in proposito nel libro di testo.
Non sono mai stato uno storico dell´arte e quel poco che so lo devo a frequentazioni e amicizie universitarie con persone che studiavano beni culturali. Il tutto, in pratica, é stato acquisito per via traversa e indiretta. Apprendimento vicario tra un paio di birre e tre cannoni. Si, mi spiace dover deludere qualcuno, ma la maggior parte del mio tempo durante il periodo universitario non l´ho passato sicuramente nelle aule universitarie. E credo sia stato anche un bene.
Eppure quel giorno in bicicletta non ho potuto fare a meno di riesumare da qualche anfratto della mia memoria a “relativamente-lungo termine” la traccia mnestica del concetto di Futurismo. E´ stato un processo del tutto involontario. Un vincolo associativo spontaneo e improvviso che mi é scattato nel cervello, attivato dal suono insistente di un campanello di bicicletta alle mie spalle. Il suono fu susseguito da un sorpasso in velocità e da qualche rapido e accennato gesto di disapprovazione, ricambiato da un altrettanto rapido e accennato dito medio. Ma fu proprio l´evidente e marcatamente percepibile velocità a richiamare gli aspetti intellettuali (se così li si può definire) del mio ragionamento. Del futurismo mi ricordavo infatti solo poche parole. Ma bene o male il tutto é riconducibile ad un elogio della velocità, del dinamismo, della frenesia e di tutti quegli aspetti più spregiudicati e aggressivi che il progresso trascina inevitabilmente con sé. Punti di vista. Nulla in contrario. Eppure avvertivo un attrito nella testa. Un fastidioso quanto persistente attrito tra ciò che interiormente sentivo come lecito e normale e ciò che veniva esteriormente e palesemente avvertito come “fuori luogo” e disturbante.
Cercherò di spiegarmi meglio. A quel primo episodio, ne seguirono altri, pressoché simili, in cui la mia limitata e “pacata” velocità veniva segnalata come di intralcio. Cominciai a notare che, sebbene non ci fosse segnaletica alcuna o qualsiasi altra forma di avviso che potesse indicare il contrario, la pista ciclabile non era considerata come corsia di transito di qualsivoglia ciclista, ma bensì solo di una determinata categoria di ciclisti, ovvero quelli più rapidi e incalliti. Il divario diveniva ancora più ampio se paragonato con la zona pedonale. Spesso mi era capitato di intralciare ciclisti vari per aver violato a piedi la “zona sacra”, con successivi insulti, rimproveri o lamentele. Ora che finalmente mi ritrovavo (o almeno così pensavo) a pieno diritto nella corsia preferenziale dei velocipedi da marciapiede, nell´olimpo del popolo errante a due ruote, venivo comunque richiamato per qualcosa che continuava a sfuggirmi. Mi resi conto che il mio andamento rilassato non risultava gradito. Non era quindi la corsia di chi voleva semplicemente spostarsi in bicicletta, a prescindere dalla velocità. Ma bensì la corsia ad uso presumibilmente esclusivo di chi non vuole servirsi dei mezzi a motore (e questo é pienamente comprensibile) o del trasporto pubblico e tuttavia non vuole rinunciare alla velocità e a quel “frizzante e piacevole” ritmo incalzante e sfrenato che la società moderna richiede.
Quindi, come al solito, mi ritrovai nel mezzo. Nel limbo dei “borderline”. Sull´orlo del confine tra ciò che é esplicitamente concesso e implicitamente proibito. Da entrambi i lati. Non ero più un pedone, da poter pertanto rivendicare uno spazio sulla zona pedonale. Ma non ero neanche un ciclista, perché altrimenti avrei dovuto adeguarmi alle velocità presunte di chi sfreccia irrequieto e ansioso sulla piste della frenesia urbana.
“Fanculo a Filippo Tommaso Marinetti e al suo futurismo!!” Pensai. “…se qualcuno ha “fretta di vivere”, io non ci voglio avere nulla a che a fare!”
E´ in quei momenti che ti rendi conto di come certi meccanismi sociali siano così silenziosi e subdoli da non permetterti di realizzare quanto il senso di inadeguatezza sia spesso indotto, in maniera arbitraria, da dinamiche interattive relativamente imposte da canoni comportamentali dominanti e impliciti che concedono osticamente spazio a forme alternative di espressione che non siano conformi alle esigenze circostanziali e convenzionalmente riconosciute.
Questa mi é venuta di getto, non chiedetevi come ho fatto, né cosa significhi.
Certe cose, a volte, é meglio non capirle.
Ovviamente Berlino é una città frenetica come ce ne sono a migliaia nel mondo. E il futurismo altro non é che un pretesto insignificante per un ragionamento su ciò che banalmente viene definito “futuro”. Il futurismo risale ai primi del novecento, quando la rivoluzione industriale prometteva un mondo di benessere e comodità alle generazioni a venire, dove il sovraccarico di lavoro sulle spalle dell´uomo si sarebbe lentamente alleggerito grazie all´avvento della tecnologia e del progresso. Eppure il tempo invece di dilatarsi si restringe in maniera soffocante e il futuro di allora purtroppo é già il presente di oggi. Quindi forse, al giorno d´oggi, sarebbe anche legittimo chiamarlo “presentismo”. Ma ciò non toglie che la tanto acclamata e bramata velocità, con le sue frizzanti e adrenaliniche scariche di positività, non fa che distrarci da ciò stiamo lentamente dimenticando: il piacere del momento. La distensione scaturita dal fermarsi un attimo e smettere di dare adito alle nostre invadenti ansie. L´amore per il singolo istante come unico e irripetibile.
Dobbiamo tutti veramente “correre” per sentirci vivi?…o é solo una forzata necessità?…e se si, forzata da cosa?
Una volta, quando il regno animale, umano e naturale si sovrapponevano abbondantemente, si correva per necessità adattive. Si correva per fuggire da qualcosa o per inseguirne un´altra.
Ora io mi chiedo: per cosa si corre al giorno d´oggi?
Da cosa stiamo cercando di fuggire?
…oppure, che cosa stiamo esattamente inseguendo?
Dilemmi irrisolti del futurismo passato e del “presentismo” moderno.
Molto probabilmente anche del passatismo futuro.
Foto di copertina © Sascha Kohlmann
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