Referendum? Intanto una generazione di giovani scappa dall’Italia in Germania (e non solo)
107.529 italiani sono espatriati nel 2015: lo rileva il rapporto «Italiani nel mondo 2016» presentato ieri a Roma dalla Fondazione Migrantes. Rispetto all’anno precedente c’è stato un incremento del 6,2 percento nelle iscrizioni all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) e un’irruzione sempre più prepotente dei millennials in cima alle statistiche. A fare le valigie sono stati infatti soprattutto i giovani tra i 18 e i 34 anni (39.410, il 36,7 percento degli expat complessivi), molto spesso senza alcuna intenzione di tornare. Meta preferita in assoluto si rivela la Germania, ma fanno registrare aumenti vertiginosi anche Spagna, Regno Unito (dati pre-Brexit) e Brasile. Nel complesso un italiano su dodici (precisamente 4.811.163) vive ormai all’estero. Un’autentica emorragia, che colpisce con virulenza soprattutto il Mezzogiorno (in alcuni comuni della Sicilia e della Basilicata è emigrato il 40 percento della popolazione) ma che interessa sempre di più anche il Nord, tant’è che Lombardia e Veneto sono ormai le prime regioni in assoluto per partenze. E, come sa bene chi vive in una metropoli come Berlino, il riferimento ai dati Aire è solo indicativo e parziale, perché c’è un vasto sottobosco di persone assenti per varie ragioni nei registri ufficiali, eppure ormai stabilmente all’estero.
Le ragioni di un esodo. «Istruiti, in possesso di qualificati titoli di studio post-laurea» ma al contempo, e paradossalmente, «la generazione più penalizzata dal punto di vista delle possibilità lavorative»: sono questi, secondo il rapporto Migrantes, i giovani expat italiani oggi. Ragazzi esposti alla disoccupazione endemica e alla marginalità sociale nel loro Paese ma che, nonostante tutto, «vedono l’emigrazione non tanto come una “fuga” quanto piuttosto come mezzo per soddisfare ambizioni e nutrire curiosità». È questo il volto migliore di un fenomeno che il rapporto definisce «mobilità in itinere», un percorso che «può modificarsi continuamente perché non si basa su un progetto migratorio già determinato ma su continue e sempre nuove opportunità incontrate». Sono gli appartenenti alle ormai abusate categorie degli easyjetter e dei cervelli in fuga: giovani che, tutto sommato, riescono a sfruttare le opportunità della globalizzazione uscendone vincitori e non vittime.
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Non solo cervelli in fuga. Ma questi dati non ingannino: a espatriare non sono solo ricercatori e ingegneri, che all’estero arricchiscono il curriculum per poi dettare le condizioni del loro ritorno, sempre che qualcuno in Italia gliene dia la possibilità. Tra gli emigranti italiani ci sono ampie fasce di giovani senza qualificazione specifica che partono all’avventura, di quarantenni con figli che in Italia hanno perso il lavoro o sono asfissiati dalle tasse. Lo dimostra il fatto che tutte le classi di età (tranne gli over 65) fanno registrare un aumento delle partenze e che il saldo migratorio, ovvero la bilancia tra chi va via e chi rimpatria, ancora costante nel primo decennio del nuovo millennio, pende ora nettamente dal lato degli expat. Insomma, si parte sempre più spesso per necessità e per non tornare, non per libera scelta nell’ambito di un percorso che possa contemplare un futuro in Italia. Siamo di fronte a persone che, marginalizzate dal Belpaese, finiscono per esserne disgustate e non vogliono saperne più nulla. E se la retorica ufficiale spende da anni fiumi di inchiostro per le eccellenze che, formate a caro prezzo dal sistema italiano, trovano la strada sbarrata in patria per poi venire valorizzate altrove, quasi nessuno si straccia le vesti per le vite sospese, invisibili, di chi magari non è al top nel suo settore e cionondimeno avrebbe diritto a un lavoro nel suo Paese. Un diritto costituzionalmente garantito, in una Repubblica fondata sul lavoro.
Mesi buttati sul referendum, ma è l’assenza di lavoro e futuro la vera emergenza democratica. Forse non sembra, eppure la Costituzione, così com’è, con il suo cuore sostanziale fatto di uguaglianza, diritti, inclusività sociale, avrebbe tanto da dire su questo spreco tragico ed enorme. Umano, prima ancora che economico. E cosa fa, la nostra classe dirigente, di fronte all’emergenza improrogabile di un’intera generazione saltata, o relegata al limbo patologico dell’eterna attesa? Si accapiglia da mesi su un referendum pretestuoso, e lo fa con i toni più biechi. Senza entrare diffusamente nel merito del quesito (chi scrive voterà convintamente “no” per una lunga serie di ragioni, in primis perché chi parla di eliminare «la complessità e gli arzigogolii della democrazia» ricorda tanto i discorsi in voga nella Repubblica di Weimar), è imbarazzante assistere a dibattiti in cui i piazzisti e gli impiegati del “sì” provano a sfoderare ogni carta pur di persuadere un corpo elettorale sfinito, persino il terrorismo psicologico. Così annunciano baratri e sventure peggiori della Brexit in caso di vittoria del “no” e promettono ponti e miracoli economici se la riforma dovesse passare. Ma sono stucchevoli anche molti fautori del “no”, nonostante la ragionevolezza (per chi scrive) delle loro argomentazioni: politici e professori che hanno alle spalle un passato di potere sonnacchioso e si riscoprono ora energici padri della patria, ma solo per spietato calcolo politico o per difendere rendite di posizione. Anziché paralizzare l’Italia su un falso dibattito per un’intera stagione politica, sarebbe stato sacrosanto cominciare ad affondare le mani nei veri problemi del Paese. Che sono giganteschi, quasi irrisolvibili, e si chiamano disoccupazione, caporalato, precariato, mafia, speculazione edilizia, evasione, corruzione, analfabetismo funzionale, disuguaglianza di genere, solo per citare i primi e più urgenti.
Il vestito e il corpo. Certo, ora che è in ballo la modifica di un terzo della Costituzione, bisogna ballare: ed è auspicabile che vinca il “no”, perché ha ragione Gustavo Zagrebelsky quando individua un rischio oligarchico e autoritario nel combinato disposto di riforma costituzionale e Italicum. Eventualità ancor più pericolosa, perché andrebbe a garantire mano libera a una delle classi dirigenti più neoliberiste e spregiudicate che l’Italia ricordi. A un governo che, per tornare alle ragioni dell’esodo giovanile, invita alla fertilità a colpi di campagne colpevolizzanti e sessiste chi non ha reddito nemmeno per sé stesso; o che, per invogliare gli imprenditori a investire in Italia, si vanta in una brochure ministeriale di offrire la forza-lavoro qualificata peggio retribuita in Europa. Zagrebelsky, nel mesto dibattito su La7 che lo ha visto sostanzialmente perdente di fronte all’ars imbonitoria di Matteo Renzi, ha detto però una cosa molto bella: che costituzione formale e costituzione materiale sono paragonabili a un vestito e a un corpo. Ora, si possono fare al primo tutte le modifiche e i rattoppi del mondo, ma se il corpo è deforme nemmeno l’abito più splendido (e non è il caso di questa riforma costituzionale) potrà trasmettere la sua bellezza a chi lo indossa. E, di fronte al corpo martoriato e ripugnante di questa Italia, si può scommettere che le giovani generazioni continueranno a volgere lo sguardo altrove. Lontano.
Foto di copertina © Skitterphoto – CC0 Public Domain