Fare una radiografia a Berlino può rivelarsi una vera avventura…
Credo il dolore abbia iniziato a farsi sentire nel periodo in cui recensivo film per Berlino Magazine. Preso dall’entusiasmo andavo al cinema anche ogni settimana.
Si trattava di anteprime per giornalisti, quindi al massimo c’erano una ventina di persone per proiezione. Arrivavo sempre un po’ in anticipo per scegliere la poltrona che preferivo e mi facevo ore di cinema stravaccato nelle più assurde posizioni. Ciò di cui non mi rendevo conto era che all’aumentare (relativo) della mia cultura da neo-cinefilo, cresceva in maniera s-proporzionale, senza che io me ne accorgessi, il disagio della mia colonna vertebrale, che implorava pietà sotto le torture inflitte dalle mie posizioni sconsiderate. Tant’è che a un certo punto, la cara colonna, decise di vendicarsi trasferendo tutto il dolore possibile al coccige: vi è mai capitato che si infiammasse? Bene, non ve lo auguro. E’ un ossicino inutile ma che se incazzato sa come farsi sentire – per molto, molto tempo.
Sta di fatto che un uggioso pomeriggio di febbraio decido di recarmi alla clinica Röntgenstitut Frankfurter Tor per fare una radiografia prescritta dal mio medico. Premetto che ho già parecchi pregiudizi nei confronti degli ospedali tedeschi, ma ancora di più ne ho per gli istituti radiologici, dove ho sempre la sensazione che tutto sia radioattivo, comprese le persone che ci lavorano.
Tant’è che spesso quasi trattengo il fiato per non essere contaminato, rendendomi così succube di una nuova forma di ipocondria nucleare.
Già all’ingresso, una porta automatica girevole conferisce al tutto un aspetto un po’ futuristico, ma solo una volta entrato mi rendo conto di aver varcato la soglia di un mondo parallelo, a metà tra Metropolis e 2001 Odissea nello spazio. Davanti a me si apre un lungo corridoio grigio all’inizio del quale si trovano, diametralmente opposti, due larghi banchi d’accettazione in metallo. A destra una targa indica MEDICINA NUCLEARE, mentre a sinistra è indicato RADIOGRAFIE. Dal momento che il nucleare mi inquieta, decido di rivolgermi alla signorina che sta semi nascosta dietro al bancone RADIOGRAFIE. Mi avvicino e le porgo la ricetta con la prescrizione del medico. Lei l’afferra senza tanti complimenti e inizia a inserire i dati nel sistema. Dalla mia posizione noto la ricrescita dei suoi capelli tinti di rosso-viola. Ha un viso a punta, una carnagione pallida e occhiali sottili in bilico sulla punta del naso. Mi sbaglio o sta masticando? Improvvisamente alza lo sguardo:
– Was haben siemnfowueofeiwifiouif ijwoif?
– Come scusi? – Mi ha preso alla sprovvista.
– Was haben Sie für Schmerzen?
Ora capisco, mi chiede che dolori ho. Spiego la situazione e lei prosegue ad inserire i dati a testa bassa. Noto che a fianco della tastiera, semi nascosto dietro una piantina da scrivania, c’è un panino morsicato a metà. Probabilmente l’ho disturbata proprio quando dopo ore di lavoro aveva appena addentato quel primo, agognato morso e l’ho costretta a mandarlo giù in un sol boccone per non farle fare una brutta figura. Dalla stampante esce un etichetta con codice a barre. La signorina appiccica l’etichetta alla ricetta e me la porge.
– Erste Flur lpfkjaoefjoijnsfoi , sie werfen ofijweoijfsèoioij ifèis , dann rufen sie siipjefjèsieèoihan.
Black Out. E non dico “Si, sì” come faccio spesso fingendo di aver capito, perché mi rendo conto che mi ha dato delle istruzioni fondamentali e che se non le seguo alla lettera potrei perdermi nei meandri radioattivi dell’edificio. Chiedo di ripetere e lei acconsente senza diminuire di un nanosecondo la velocità. Deve proprio avere fame. Per fortuna alla seconda volta capisco. Devo andare al primo piano, a sinistra, inserire la ricetta nell’apposita fessura e aspettare.
Vorrei chiedere a che fessura si riferisce ma meglio lasciarle continuare il panino. Ringrazio e percorro il lungo corridoio che termina ad un ascensore. Salgo al primo piano, giro a sinistra e capisco a cosa si riferiva la signorina: sul fondo di una saletta d’attesa dai muri beige e una serie di porte rosa pallido si trova un bancone sul fronte del quale c’è un pannello di legno in cui si apre una fessura con scritto RICETTE. La stanza è vuota, non vola una mosca. Attraverso la saletta per avvicinarmi al bancone e seduta dietro riconosco la signorina dell’ingresso. Di fianco ha sempre il panino mezzo masticato. E’ indaffarata al computer e sembra non vedermi.
– E’ qui vero? – chiedo perplesso indicando la fessura.
– Sì. Certo, certo, lì. – risponde sempre affettata.
Infilo la ricetta nella fessura – la vedo cadere dietro sulla scrivania! – e vado a sedermi, facendo congetture sul perché di quella assurda procedura.
A quel punto la signorina si alza, prende la ricetta che le è caduta praticamente sotto il naso e sparisce in una delle porte rosa pallido.
Dopo due minuti si apre la porta numero due. Non vedo chi la apre, ma riconosco la voce affettata:
– Herr Bonetti!
Possibile che… Entro, e la stessa signorina, con la sua parlantina spedita, mi blocca appena dopo la porta, mi da istruzioni e sparisce. Mi par di capire di dover restare solo in mutande e di presentarmi davanti al macchinario per la radiografia quando sono pronto. Io obbedisco, mi svesto ed entro nella stanza poco illuminata dove spiccano i led rossi di alcuni misteriosi macchinari. Mi guardo attorno in cerca della signorina.
– Bitte staigensieaufdiojaoiudohaeohfoh – undhaltensisiechfest!
Con un balzo mi giro e la vedo alle mie spalle, bardata di muta anti radiazioni. Mi invita a salire sull’inquietante macchinario posto al centro della stanza, un misto tra una bilancia pesapersone dell’Ottocento e la macchina della salamoia di Roger Rabbit. Salgo su una stretta pedana ma non ho assolutamente idea di come posizionarmi e così la signorina mi spiaccica la schiena contro una parete metallica e mi intima di tenere i piedi uniti. Tengo le mani lungo i fianchi, notando che in questa posizione il mio equilibrio è decisamente precario. Trattengo il respiro e osservo il puntatore raggi x davanti a me, che minaccioso attende di trafiggermi. La signorina mi intima di stare assolutamente fermo, mi da una specie di armatura in plutonio per coprire le parti basse ed entra in un bunker alla mia destra, dove tramite uno spesso vetro la vedo prendere posizione dietro un banco di controllo pieno di leve e bottoni.
Ci siamo. Con la coda dell’occhio la vedo spingere una leva.
Il macchinario si accende con un insieme di rumori nucleo-elettro-meccanici. Il puntatore si attiva, si solleva, si gira e riposiziona minaccioso a poca distanza da me. Quello che non mi aspetto però è che la pedana su cui sono in equilibrio precario… inizia a muoversi. E’ la signorina, che da dietro il vetro la sposta, un po’ a sinistra… un po’ a destra… un po’ in avanti. Io ad ogni sussulto della pedana oscillo pericolosamente, non posso attaccarmi da nessuna parte perché devo reggere il para-palle e ho comunque paura di rimanere folgorato se faccio la mossa sbagliata. Proprio quando sento che l’equilibrio mi sta abbandonando per sempre, la pedana si arresta. La radiografia è terminata. La signorina ancora in assetto da guerra nucleare mi manda a rivestirmi e mi saluta con un “ci faremo sentire!”. Io non me lo faccio dire due volte e in tempo zero sono fuori dal labirinto nucleare.
Finalmente nel mondo normale, dove posso ricominciare a respirare.
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