Eugenio Montale e quella Germania che continua a tradurlo
Montale non è particolarmente amato né conosciuto in Germania: può capitare di osservare che studenti di letteratura a livello di master non l’abbiano mai sentito nominare e i consueti tentativi di ricordare che sia quello che parla del paesaggio ligure, del male di vivere o che ha vinto il Premio Nobel nel ’75 debbano terminare con l’arrendersi.
E poiché la ricezione di un autore straniero va chiaramente di pari passo con la sua traduzione, Montale non è stato neanche mai tradotto particolarmente in tedesco: bisogna aspettare gli anni ’60 per il primo volume a suo nome e fino a oggi si contano meno di dieci traduzioni, che scelgono di realizzare alternativamente una parte o all’altra della sua produzione. I motivi sono da riscontrare sicuramente nella difficoltà obiettiva della sua poesia, soprattutto quella delle Occasioni e della Bufera, a tratti quasi oscura, ermetica; la prima produzione invece, quella degli Ossi di seppia, con l’immagine di una vegetazione aspra e ostile all’uomo, e di un sole che brucia e abbaglia invece di scaldare, presenta un paesaggio così lontano dagli stereotipi tedeschi che può risultare addirittura incomprensibile.
Eppure Montale deve ancora rappresentare un qualche interesse per i tedeschi, visto che pochi mesi fa, nel novembre 2013, è uscita una nuova traduzione con il titolo Was bleibt (wenn es bleibt). Gedichte 1920 bis 1980, che affronta trasversalmente tutte le raccolte del poeta. A pubblicarla è stata una casa editrice di Mainz, la Dieterich’sche Verlagsbuchhandlung, che ha un’attenzione particolare per autori italiani di tutti i tempi. Il traduttore Christoph Ferber, svizzero, che ha studiato romanistica e slavistica a Losanna e Zurigo e traduce non solo dall’italiano, ma anche dal francese, russo, bulgaro e polacco, per questa trasposizione delle liriche di Montale è stato insignito nel mese di febbraio del premio speciale per la traduzione all’interno dello Schweizer Literaturpreis.
Il piccolo volume dalla grafica semplicissima contiene in realtà oltre 240 componimenti tradotti, come d’uso con la versione italiana a fronte, che spaziano dai primi Ossi fino ai poco conosciuti Altri versi. Delle prime raccolte, nonostante esistesse la trasposizione già completa di Hanno Helbling, è tradotta solo una scelta: questo può far pensare a un fallimento dell’arte della traduzione, a un’ammissione che in certi casi sia meglio astenersi dal tentare di riportare la poesia in un’altra lingua. Ma nella nota finale del traduttore è lo stesso Ferber ad ammettere la sua preferenza per l’ultimo Montale, per quella parte della sua produzione che presenta una lingua e una sintassi più umili, e che in passato è stata spesso rifiutata dai critici che non la riconoscevano propria del poeta. Le prime raccolte infatti, troppo connotate politicamente e legate al momento storico in cui sono state scritte, sarebbero particolarmente difficili da rendere fruibili per il lettore non italiano e contemporaneo.
E se si legge la versione della famosissima Meriggiare pallido e assorto non si può non notare che, nonostante il traduttore tenti una certa fedeltà all’originale nella struttura e lunghezza dei versi, nella precisione dei termini e nella riproposizione delle rime, quella tensione tra il significato, le forti allitterazioni di suoni aspri e il ritmo serrato dei versi, in cui sta la forza della poesia, va perduta. Si ha la sensazione che la traduzione abbia semplificato troppo. Ma guardando la trasposizione degli Xenia, quei piccoli componimenti che Montale offre in dono alla moglie dopo la sua morte ricordando con tenerezza gli anni della loro convivenza, si capisce dove stia la bravura di Ferber. Il suo merito non è solo quello di aver tradotto per la prima volta l’intero ciclo di poesie, contenuto in Satura, ultima grande raccolta di Montale, e che ponendosi come un dialogo risulta sicuramente più efficace se completo. Ma anche quello di riuscire a riprodurre in tedesco il tono colloquiale, il ritmo altalenante, il registro a volte basso ma che mostra la totale intimità con l’interlocutore – la moglie definita affettuosamente “Mosca” per la sua forte miopia – tipici di queste poesie. In questo modo Ferber ha messo a disposizione del lettore tedesco uno dei momenti più alti della poesia italiana e assolutamente propria di questo autore quanto quella precedente.
Xenia I, 14
Eugenio Montale, originale, 1966
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.
Christoph Ferber, traduzione, 2013
Man sagt, meine Dichtung
sei an niemand gerichtet.
Doch wenn sie dein war, gehörte sie jemand:
dir, die du nicht mehr Gestalt bist,
nur Wesen. Man sagt,
auf ihrem Gipfel lobpreise die Dichtung
das entfliehende Glanze; das die Schildkröte
schneller ist als der Blitz, wird geleugnet.
Nur du hast gewusst, dass Bewegung
nicht anders ist als Verharren, das die Leere
Die Fülle ist und die Bläue des Himmels
die am meisten verbreitete Wolke. Deine lange
Reise, in Gips und in Binden gefangen,
begreif ich nun besser.
Indes: keine Ruhe find ich; ich weiß es:
ein Ding sind wir immer, allein und zusammen.