Marlene Dietrich, a Berlino la mostra dedicata alla diva che disse no al nazismo

È sempre difficile raccontare un amore, ancora più arduo se ha le tinte dolenti del ricordo e del distacco. Soprattutto quando l’esilio volontario si trasforma in una scelta civile obbligata per affermare la propria libertà artistica e intellettuale, oltre alla presa di posizione risoluta contro una delle più abiette dittature del Novecento. Perché, al di là delle speculazioni, quella di Marlene Dietrich per la sua Berlino e per la Germania tutta è stata una forma di amore profondo. Un sentimento frainteso, bistrattato e denigrato dalla storia e dal paese che le diede i natali, ma che dopo più di sessant’anni di espiazione ha chiuso il cerchio ed è giunto faticosamente ad un riscatto finale.

È il 1930, all’orizzonte si profila il collasso della Repubblica di Weimar e l’ascesa inarrestabile del nazionalsocialismo. Dopo un quinquennio propizio, quello dell’epoca d’oro di Stresemann, Berlino è agitata da inquietudini e turbolenze politiche, acuite sensibilmente dalla morsa della disoccupazione e dell’iperinflazione ormai dilaganti. Ma all’indomani della Prima Guerra Mondiale la città è cambiata, e il nuovo clima di libertà politica degli anni Venti ha trasformato Berlino nel motore di una moderna rivoluzione culturale. Sono gli anni dorati del teatro di Brecht, della satira di Tucholsky, dell’avanguardismo di Walter Gropius poi confluito nel movimento del Bauhaus, delle opere surrealiste di Max Ernst, dell’espressionismo musicale di Kurt Weil, del cinema distopico di Fritz Lang e Max Reinhardt.  La pulsante vita notturna berlinese, con i suoi caffè e il festoso trionfo del libertinismo, si trasforma in un crogiolo di tensioni spirituali che determina un profondo rinnovamento di pensiero. Il teatro di rivista, il cabaret e il cinema muto degli albori distraggono gli spettatori dall’inquietudine dei tempi che serpeggia latente; e la magia di un nuovo mezzo espressivo, quello cinematografico, facilita l’evasione: più la realtà è desolante, più si allunga la fila al botteghino.

All’apice di questo decennio entusiasta e venato d’irrequietezza, Maria Magdalene von Losch – in arte Marlene Dietrich – tenta il provino della sua vita. Il regista Josef von Sternberg cerca nei varietà di Berlino il volto che impersonerà Lola Lola, la protagonista femminile de L’Angelo Azzurro, una donna fatale che riesca a catalizzare fisicamente l’esuberanza e la vivacità della cultura di Weimar. E lo trova in Marlene: cappello a cilindro, calze e giarrettere nere, boa di piume, voce roca e profonda, carnagione lunare e due gambe notevoli che faranno di lei un’icona. Dopo dieci anni di palcoscenici berlinesi e un susseguirsi di ruoli insignificanti nel cinema muto, Marlene entra di diritto nell’olimpo delle dive e lo fa in modo spettacolare. L’Angelo Azzurro è la prima pellicola sonora della storia del cinema teutonico e sarà girata sia in tedesco che in inglese, un’ironica e amara premonizione del futuro di separazione imminente che attende la diva. Il film viene proiettato per la prima volta nelle sale di Berlino il primo Aprile del 1930 ed è un vero trionfo. Il giorno dopo la prima, la stampa berlinese va in delirio e proclama Marlene Dietrich un astro nascente. Ma l’attrice, in quel momento, è già sul transatlantico che la porta in America: ha firmato un contratto di sei anni con la Paramount, con la clausola di poter scegliere il regista dei suoi film e continuare il fortunato sodalizio con Josef von Sternberg. In quel momento è solo la carriera a guidare le sue scelte, ignara del fatto che rivedrà la sua amata Berlino solo quindici anni dopo, ridotta a un cumulo di macerie.

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In America, Marlene non è ancora un’attivista politica; lavora nel mondo patinato di Hollywood dove i film vengono prodotti industrialmente, attenendosi alla metodica precisa di una catena di montaggio. È una creatura del suo maestro, il regista che l’ha trascinata sotto le luci della ribalta e farà di lei la degna rivale artistica di Greta Garbo. Le produzioni si susseguono, Marlene interpreta cinque film in due anni e lega indissolubilmente il suo nome al marchio della Paramount. Ma l’attrice continua a nutrire il desiderio di fare ritorno a Berlino, alla Schöneberg della sua infanzia; e coltiva ardentemente la speranza di poter tornare a recitare nella sua lingua madre, calcando la scena cinematografica tedesca che in quegli anni ha ancora rilevanza mondiale. Seppur grata al suolo americano che l’ha consacrata alla celebrità, per anni continuerà a ripetere: “Grazie a Dio, io sono una berlinese”, sottolineando il profondo e inscindibile legame con le sue radici.

Poi, nel 1933, le speranze di Marlene si infrangono miseramente. Il 30 gennaio di quell’anno, il vecchio Hindenburg nomina Adolf Hitler cancelliere e condanna la Germania a un destino infausto. Il partito nazionalsocialista al potere, avvalendosi del Ministero della Propaganda, spazza via con un colpo di spugna il fermento culturale che aveva animato Berlino e piega il mondo intellettuale tedesco agli schemi brutali della censura. A decidere cosa sia arte in Germania è solo e soltanto Hitler, e la fuga degli intellettuali all’estero è pressocché immediata. Marlene ha molti amici ebrei, che per scampare alla persecuzione fuggono a Parigi, a Vienna, a Londra e a Praga. E le notizie allarmanti che le riportano alimentano in lei il disgusto per un paese che non è più il suo, persuadendola a non tornare. Hitler nutre per Marlene Dietrich una grande ammirazione, vuole che salga sul carro della propaganda, che diventi un simbolo femminile del Reich, e incarica Göbbels di riportarla al più presto in patria. Ma Marlene tiene a bada i corteggiatori nazisti – nel timore di irritarli scatenando ripercussioni sulla madre e la sorella, rimaste a Berlino – e scrive di suo pugno al ministro della propaganda, declinando l’offerta. Quello stesso anno prende la cittadinanza americana: un gesto eloquente per manifestare la sua disapprovazione e la volontà di opporsi a un disegno politico che va contro i suoi ideali di donna e di artista. Negli anni seguenti Marlene intensifica l’impegno civile sostenendo le attività degli esuli tedeschi in America e, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, rende pubblica la propria posizione cantando e ballando per i soldati americani in licenza o in partenza per il fronte. Nel 1944 s’impegna in prima persona arruolandosi nell’esercito americano per “un senso di decenza”, per ribadire la sua ferrea presa di posizione contro tutte le dittature e a favore della pace. Parte per Algeri, segue i soldati sul fronte, porta il suo sorriso hollywoodiano nelle infermerie e negli ospedali da campo, spazzando via l’incubo della guerra a suon di canzonette per tenere alto il morale dei soldati americani. Dal canto loro i tedeschi l’hanno ormai bollata come traditrice della patria, definendola “la puttana delle truppe” e manifestando per lei un profondo disprezzo.

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Il ritorno di Marlene a Berlino, a conclusione della guerra, è il culmine dell’amarezza e dello sconforto. Dopo una visita in uniforme americana al campo degli orrori di Bergen-Belsen, l’attrice rimette piede a Berlino dopo quindici anni; lo scenario di devastazione che le si presenta davanti agli occhi non ha nulla a che vedere con la spensieratezza e gli allegri teatri di varietà nei quali ha mosso i primi passi. La città è sventrata dalle bombe e conta il numero delle sue vittime, ma Marlene ritrova la madre viva. Un ultimo abbraccio prima della sua morte, che avverrà qualche mese dopo. Marlene torna in America, la sua patria intatta, quella dei vincitori. Farà ritorno in Germania solo dopo altri quindici anni, durante la tournée tedesca del 1960, che le riserva un’accoglienza delle più ostili. A Düsseldorf le sputano addosso, a Wiesebaden precipita dal palco, a Colonia qualcuno libera 500 topi bianchi in teatro durante la sua performance e a Berlino, la sua città adorata, davanti al Titania Palast è accolta dalle parole durissime dei cartelli dei manifestanti che le intimano “Marlene, go home”. Berlino non è più la sua casa, ma nonostante la delusione Marlene continua a cantare i pezzi di Cole Porter, Jacques Brel e Friedrich Holländer con l’apparente, algido distacco di sempre. Uno dei pochi a sostenerla e mitigare la frattura ormai insanabile è Willy Brandt, sindaco di Berlino Ovest, che è stato uno strenuo oppositore delle forze naziste e riconosce a Marlene il merito di una linea di condotta coerente, seppure tanto discussa. Nella Germania dal passato onnipresente, Marlene è un simbolo controverso: eroina antifascista per gli uni, traditrice della patria per gli altri. Neppure il 16 Maggio 1992, quando per suo esplicito volere la sua salma sarà interrata nel cimitero berlinese di Friedenau, accanto a quella della madre, la riconciliazione potrà dirsi compiuta. La lapide della Dietrich diventa il bersaglio degli atti vandalici dei gruppi di ispirazione neonazista berlinesi, che sfregiano ripetutamente la sua tomba. È solo cinque anni dopo la sua morte (e dopo il fermo rifiuto degli abitanti di Schöneberg di intitolarle una via nel suo quartiere natale), che il senato berlinese, nel 1997, deciderà finalmente di onorare la sua memoria dedicandole la piazza antistante il Sony Center, l’avveniristico centro multimediale progettato dall’architetto Karl Jahn, che ospita al suo interno un museo interamente dedicato all’attrice a due passi da dove ogni anno si svolge il festival del cinema di Berlino.

“Ich hab’ noch einen Koffer in Berlin”, cantava Marlene, e dopo sessantasette anni è tornata a riprendersela, quella preziosa valigia di ricordi. La riabilitazione agli occhi dei tedeschi è stata difficile e tormentata, ma alla fine Berlino ha fatto pace con la sua diva. Alla fine, dopotutto, ha avuto ragione lei.

Qui le informazioni per visitare la mostra permanente dedicata a Marlene Dietrich nel Deutsche Museum für Film und Fernsehen (Potsdamer Strasse 2, in realtà all’interno del Sony Center)