I 50 passi per diventare un perfetto berlinese
In occasione del mio trentatreesimo compleanno, il primo simbolicamente festeggiato qui a Berlino, ho ricevuto un dono inaspettato da una persona lontana. Una persona che mi conosce abbastanza bene da sapere che un libro mi avrebbe reso felice in ogni caso. Un’amica tedesca che dopo tanto viaggiare da un continente all’altro ha deciso di trasferirsi nella Puglia assolata degli ulivi e dei vigneti, a due passi dal mare, la terra di dove finisce la terra che poi è anche casa mia. Dagmar incarna con molta grazia e ironia il prototipo romantico del tedesco dallo spirito errante, amante dei viaggi e dei paesaggi ameni, ed è anche in virtù dei suoi avvincenti racconti sulla vita a Berlino ai tempi del muro che mi sono innamorata di questa città, molto prima di risolvermi a viverci in pianta stabile. Senza dubbio questo suo regalo aveva l’intento affettuoso di avviarmi con un sorriso allo sforzo titanico dell’integrazione facendomi sentire un po’ a casa, e devo ammettere senza falsi sentimentalismi che il suo proposito ha colto decisamente nel segno.
Il libro in questione, scelto certamente con molta cura e materna sollecitudine, reca in copertina un titolo ironicamente allusivo – How to be German (in 50 easy steps) – e la veste grafica rappresenta un piccolo tesoro nostalgico per il traduttore, memento struggente dei testi con traduzione a fronte tanto sfogliati ai tempi dell’università. A differenza degli amati-odiati classici del teatro inglese, però, che nella migliore delle ipotesi facevano capolino dai ripiani della libreria in una scialba confezione editoriale marrone e arancio, questo prezioso manualetto si presenta coloratissimo, accompagnato da un’illustrazione o una vignetta umoristica per ogni step e condito da un dettaglio assolutamente non trascurabile. Perché, se su un lato sciorina i suoi arguti consigli in lingua inglese, sull’altro, capovolgendolo, il libro diventa speculare e tradotto in versione tedesca. Un doppio esercizio, dunque, per aggiungere parole nuove al bagaglio linguistico del tedesco e, last but not least, per imparare divertendosi.
Si tratta di un manualetto leggero, senza troppe pretese, che pomposamente si propone di trasformare il lettore in un perfetto mutante teutonico, con tutti i pregi, le fisime e le idiosincrasie che ne derivano. L’approccio è decisamente ironico e spassoso, e le 50 mosse da seguire spaziano dall’Apfelsaftschorle alla burocrazia tedesca, dalla tanto detestata GEMA al vivere bio, dalle multe sui mezzi pubblici alla Kartoffelsalat, dalla sacralità di Tatort la domenica sera alla grande importanza rivestita dai cartoncini d’auguri in occasione delle ricorrenze. Un compendio spiritoso che ha allietato i miei primi tragitti in U-Bahn e il più delle volte mi ha strappato sonore risate nel silenzio religioso che regna sui vagoni, suscitando la curiosità discreta dei miei taciturni compagni di viaggio che, una volta adocchiato il titolo in copertina, comprendevano il motivo di tanta ilarità e ricambiavano spesso il sorriso.
L’autore, Adam Fletcher, è un blogger ed esperto di marketing di Cambridge che gironzola a Berlino da qualche anno; sulla sua pagina ufficiale si definisce di suo pugno “scrittore, mangiatore di cioccolata dilettante e napper (pennicatore) professionista”, oltre che autore di altri tre volumetti godibilissimi quali A Picnic for Perverts (2012), The Hipster Guide (2013) e Denglish for Better Knowers (2014). Dopo la tragicomica chiusura del punto vendita Hipstery di Neukölln, Adam continua a scrivere i suoi pezzi satirici e a vendere la sua linea di gadget tramite e-commerce, restringendo target e tipologia di prodotti sotto un’unica, esauriente etichetta: lui e il suo socio contrabbandano solo e soltanto, a suo dire, “things that make us laugh”. Non me ne vogliano gli amici che amano sfoggiare per vezzo barbe Amish e stilosi occhiali tartarugati dalle lenti non graduate, ma il kit del perfetto hipster berlinese è una delle trovate più geniali ed esilaranti su cui mi sia capitato di posare lo sguardo ultimamente. Date un’occhiata voi stessi, se non ci credete.
Tornando al nostro How to be German, mi sono divertita a tradurvene uno stralcio – dall’inglese! – consapevole del fatto che, nell’esperanto disperante in cui spesso ci troviamo a comunicare in terra germanica, ogni tanto leggere qualcosa nella nostra madrelingua è a dir poco confortante. Un po’ meno, forse, dell’espressione tedesca Mahlzeit (spesso tradotta con un equivalente del “buon appetito” italiano), protagonista dello step numero 15 nella donchisciottesca metamorfosi fletcheriana, al termine della quale potrete dirvi anche voi tedeschi fatti e finiti… con tutti i rischi annessi e le incognite del caso. Viel Spaß e buona lettura, allora, miei cari e diligenti Ausländer.
15. «MAHLZEIT!»
Il tedesco ha la reputazione di essere una lingua pragmatica e letterale. Che si tratti dei suoi sostantivi – come il capezzolo, ad esempio, ribattezzato con un poco romantico Brustwarze (“verruca sul petto”), e la fin troppo esplicita Antibabypille – o di alcune sue espressioni, che talvolta sembrano descrivere non l’umore o lo stato d’animo, bensì la meccanica misteriosa di un’auto invisibile: «Es läuft» (“funziona”), «Es geht» (“va”), «Es passt» (“ci sta bene, si adatta”), «Alles in Ordnung» (“tutto a posto”).
Questo può bastare come antipasto, intrepidi Ausländer, ma per diventare dei veri tedeschi dovete imparare ad usare il saluto più pragmatico e sconcertante di tutti – «Mahlzeit!», traducibile con “buon appetito” o molto più letteralmente con “orario dei pasti”. Ero arrivato da poco in Germania e, mentre me ne stavo seduto in mensa a gustarmi il pranzo, i colleghi mi passavano accanto apostrofandomi con sonori «Mahlzeit! ». Mahlzeit? Mahlzeit? Ora di pranzo? Beh, senza dubbio! Che io stia mangiando è evidente. Proprio in questo momento sto palesemente e rumorosamente ingurgitando un’insalata di patate. Sto masticando, non si vede? Lo so che è un po’ presto per il pranzo, ma ammetto di aver saltato la colazione. Non giudicatemi, abbiate pietà, per favore!
Solo a quel punto capite che non è una domanda. È un’affermazione ridondante travestita goffamente, come un bambino che gioca a rubare gli abiti dei genitori, e che sfila in parata sotto forma di saluto. Quindi, a beneficio dell’integrazione, col passare del tempo cominciate a usarla anche voi. All’inizio vi suonerà un po’ bislacca, ma vi assicuro che finirete per trovarla piuttosto divertente, soprattutto perché in molte regioni della Germania potete usarla a qualunque ora del giorno. Potete chiamare qualcuno alle 4 del mattino, quando sapete per certo che è in pieno sonno, e augurargli «Mahlzeit!». Geniale. Forse vi starete chiedendo perché non potete aggiungere il suffisso -zeit ad altre attività per creare nuovi e originali saluti, senza limitarvi al momento del pasto. Ma la letteralità del tedesco comincia e finisce proprio quando iniziavate ad afferrarne il senso. Guanto è Handschuh (“scarpa da mano”), ma non sognatevi di chiamare il cappello Kopfschuh (“scarpa da testa”). Vedete qualcuno dissetarsi? Non potete certo augurargli «Trinkzeit!». Tanto per cambiare i vicini stanno facendo sesso senza fare minimamente caso ai decibel dei gemiti? Non è ammissibile suonare il campanello e augurar loro un caloroso «Fickzeit!».
Solo e soltanto «Mahlzeit», intesi?
(Adam Fletcher e Ingo Herze, How to be a German/ Wie man Deutscher wird, Verlag C.H.Beck oHG, München 2013, pp.23-24)
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Immagine di copertina: Pixabay