Italia? Non solo. Anche in Germania lavoro nero e sfruttamento dei migranti sono all’ordine del giorno
Italia, Nardò. Mohamed aveva 47 anni, veniva dal Sudan ed è morto da schiavo. Lo scorso 20 luglio, nelle campagne tra Nardò e Avetrana, è stato stroncato da un malore mentre raccoglieva pomodori. Erano le prime ore del pomeriggio e il termometro sfiorava i 40 gradi. Era un uomo forte, abituato al lavoro nei campi, ma stavolta il suo cuore non ha retto. Il sole cocente, la stanchezza e le insopportabili condizioni di lavoro hanno avuto la meglio. 12 ore al giorno – dalle 5 del mattino fino alle 17 – tra afa e arsura, per 3,50 euro a cassone. Ogni cassone pesa tre quintali. Più se ne riempiono, più si viene pagati. Lavoro a cottimo, si sarebbe detto in altri tempi. Mohamed aveva lasciato il Sudan per la Libia e, da lì, aveva raggiunto l’Italia nel 2006, in cerca di una vita più dignitosa per sé e la sua famiglia. Su un barcone, come tutti. Da allora una lunga via dolorosa nel Meridione d’Italia, alle prese con l’inferno del lavoro stagionale e del caporalato: raccolta dei pomodori a Crotone, raccolta delle patate a Siracusa e Cassibile; negli ultimi giorni, l’arrivo fatale in Puglia.
Mohamed era un rifugiato politico con regolare permesso di soggiorno. Non si trattava dunque di un clandestino, per anticipare l’obiezione cara a quella fetta d’Italia che suddivide gli uomini in “legali” e “illegali” sulla base della loro provenienza, come se nascere in una determinata zona del mondo costituisse una colpa o un demerito. Ma gli sfruttatori non sono particolarmente interessati ai distinguo burocratici, comprendono meglio il linguaggio del bisogno e dell’indigenza. Così Mohamed, nonostante il suo status, lavorava senza contratto per un’azienda agricola già sotto processo per riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, sfruttamento del lavoro, tratta di persone. Il titolare della ditta Giuseppe Mariano, sua moglie e il caporale sudanese sono ora indagati anche per omicidio colposo. La moglie di Mohamed, Marian, e i suoi due figli sono arrivati a Nardò da Caltanissetta, dove risiedono, per riconoscere la salma e riportarla in Sudan. «Quello è il suo posto, vicino alla sua famiglia», dice a Repubblica Bari la donna, rimasta incredula di fronte alle condizioni dello stabile in cui era costretto a vivere il marito insieme ai suoi compagni di raccolta. Un materasso gettato su un balcone, in mezzo alla sporcizia. «Neanche gli animali vengono trattati così. In questa casa che non si può chiamare casa non c’è posto per l’umanità».
Germania, Vechta. La nuova e spesso inefficace legge sul Mindestlohn, il salario minimo orario di 8,50 euro, è entrata in vigore da sei giorni, quando Marius Ionescu, 39 anni, rumeno, approda in un’angusta piazzola di sosta alla periferia di Vechta, in Bassa Sassonia. Sono le 13 del 7 gennaio, e con lui si trovano il figlio e quattro conoscenti. I sei lavoratori sono stati portati in Germania con un pullmino. Nella piazzola di sosta devono essere prelevati da un uomo che li ha “ordinati” in Romania come muratori. Ma l’uomo non si presenta. Dopo due ore di attesa, il conducente del pulmino si riprende i passaporti e riparte per la Romania, lasciandoli nella piazzola. L’uomo che deve andare a prendere Ionescu è un caporale, tristemente noto in Bassa Sassonia, che procura alle aziende edili e alimentari forza lavoro rumena e bulgara, più economica. Come molti altri sfruttatori della sua risma, ha lui stesso un passato di emigrazione alle spalle. Da anni, ormai, impiega uomini a condizioni indegne, chiudendo e riaprendo impunemente delle società di comodo.
Marius Ionescu e i suoi amici restano bloccati nella piazzola, gelati, senza passaporto, in scarpe da ginnastica e tuta. Dietro di loro il bosco. Verso sera, si costruiscono una sorta di igloo coi loro bagagli, per proteggersi dalla neve. Di notte forzano un vecchio bus che si trova nei paraggi. Due di loro si accovacciano per un’ora sul sedile posteriore; gli altri, fuori, vanno avanti e indietro. Hanno paura di addormentarsi e di morire assiderati nel sonno. I sei rumeni devono attendere il caporale fino alle 12 del giorno successivo. L’uomo li porta a Vechta, in un alloggio che il Landkreis aveva già sequestrato perché mancavano acqua e corrente e in una stanza erano stipati 14 materassi. Il giorno successivo, ad ogni modo, comincia il lavoro. Ionescu, già minatore in Romania, deve ora riparare bancali. Salario pattuito: 25 centesimi a pezzo. Ionescu è svelto e di costituzione forte, così il primo giorno riesce a ripararne 34. Quando giunge la sera, si fa un rapido calcolo: ha guadagnato 8,50 euro. Il che, in otto ore, significa un salario minimo che ammonta a poco più di un euro all’ora.
Perché lavoratori come Marius Ionescu vanno in Germania per una paga così misera?
«Qui guadagniamo pur sempre qualcosa in più che in Romania», dice Ionescu, che lavorava in una miniera sui Carpazi ormai chiusa da tempo. Come Ionescu la pensano in molti: pur di costruirsi, un giorno, una casa in Romania, sono disposti ad accettare paghe indecorose per gli standard tedeschi, ma comunque superiori al salario minimo rumeno.
Alla fine della giornata lavorativa a Vechta, però, Ionescu comprende che stavolta il suo salario batte al ribasso persino la media rumena. O meglio, la avrebbe battuta, se solo gli fosse mai stato corrisposto. E invece si è trattato solo di un giorno di prova, dicono i suoi datori di lavoro.
L’Unione europea dello sfruttamento e dell’ipocrisia
Questa storia, raccontata dalla Zeit del 5 marzo 2015, rivela un sottobosco di lavoro nero e di caporalato che in Germania è più diffuso di quanto si possa pensare. Ufficialmente nel ramo edile ci sono 100.000 Leiharbeiter inviati da imprese estere, vale a dire lavoratori temporanei formalmente sotto contratto d’opera. Il sindacato IG Bau calcola siano almeno il doppio. Vere e proprie bande di trafficanti di uomini organizzano questi flussi, un affare criminale che consente a molte aziende tedesche di aggirare la normativa sul salario minimo e di stracciare la concorrenza francese, olandese e belga nei settori più svariati: gastronomia, industria della carne, imprese di pulizie, logistica, agricoltura e, in modo crescente, siderurgia ed elettronica.
Due anni fa fece scalpore la notizia della morte di due lavoratori a Papenburg, cittadina nota per i cantieri navali della Meyer Werft, che produce da due secoli lussuose navi da crociera e non disdegna l’impiego di forza lavoro est-europea a basso costo. La prestigiosa azienda esternalizza parte del processo produttivo a società di servizi che, come il caporale di Vechta, reclutano metodicamente il loro personale tra gli ultimi della terra. Tra costoro c’erano i due operai di origine rumena, 32 e 45 anni, morti carbonizzati in un incendio divampato nella loro abitazione di fortuna, in cui erano ammassati 13 posti letto.
In seguito al tragico rogo, Annelie Buntenbach del Deutscher Gewerkschaftsbund dichiarò alla Berliner Zeitung che la situazione per i migranti è drasticamente peggiorata negli ultimi anni. Sono ricomparse condizioni lavorative e abitative da protocapitalismo, nonché feroci forme di sfruttamento lesive della dignità umana. «Spesso vengono pagati stipendi da fame, 3 o 4 euro all’ora. Ad alcuni lavoratori viene sottratta con la frode parte del loro salario. Molti non hanno l’assicurazione sanitaria, e sono frequentemente stipati in alloggi miserabili nel bel mezzo del nulla. Sono isolati, non hanno auto, in città non passa alcun bus. Spesso si spostano quasi esclusivamente tra quartiere dormitorio e postazione di lavoro». Questi uomini, quando sono ancora nel loro paese, vengono irretiti con false promesse. Così si indebitano coi trafficanti o coi cosiddetti intermediari per pagarsi il viaggio e il posto di lavoro e diventano ricattabili. È una dinamica ambigua, sotterranea, che si muove al confine con la tratta di uomini. Una volta in Germania, molti di questi lavoratori non riescono a informarsi sui loro diritti a causa delle difficoltà linguistiche, delle condizioni di lavoro alienanti, della scarsità dei centri di consulenza. Restano dunque in silenzio di fronte a vessazioni, riduzioni di salario, giorni di malattia non pagati, condizioni di lavoro pericolose.
Sandra Siebenhüter, sociologa presso l’Università di Eichstätt, parla di una doppia emarginazione per i Leiharbeiter stranieri: in primo luogo, a differenza delle precedenti generazioni di migranti, per cui il posto di lavoro costituiva la via maestra per stringere legami con la società tedesca, i lavoratori precari di oggi non possono gettare radici, senza la sicurezza di essere richiamati il giorno successivo. Inoltre, lavorando per un salario miserevole fino a 13-14 ore al giorno, le possibilità di studiare la lingua sono pressoché inesistenti, così come quelle di integrarsi positivamente. Per questo la sociologa si dice esterrefatta, quando ascolta qualche politico parlare di migranti che non vorrebbero integrarsi: perché possano farlo, bisognerebbe prima concedere loro una chance reale.
D’altro canto, la lunga e torbida catena delle imprese di subappalto permette a più mani di spartirsi la torta dei profitti e, al contempo, rende estremamente difficile appurare le singole responsabilità, tra società irrintracciabili, formalmente inesistenti o già fallite, situate all’estero. Non ci sono statistiche precise e univoche sui migranti in nero in Germania e sul Lohndumping, la concorrenza sleale delle aziende che sfruttano il basso costo del lavoro nei paesi poveri o in via di sviluppo. Ma se la Meyer Werft, secondo il sindacato IG Metall, impiega il 45 per cento dei suoi dipendenti sotto contratto d´opera, si può intuire che la dimensione di questo fenomeno sommerso è potenzialmente enorme.
Marius e i suoi compagni di sventura sono ancora vivi, Mohamed non ce l’ha fatta; in Bassa Sassonia si può morire assiderati sotto la neve in una piazzola sperduta, in Puglia «per il caldo killer», come ha titolato sulla vicenda, in modo forse involontariamente ideologico, il Corriere del Mezzogiorno. Ma, al di là delle circostanze fortuite e dei differenti scenari di desolazione, i meccanismi di sfruttamento posti in essere a Vechta e Papenburg sono sostanzialmente gli stessi a Nardò, a Rosarno o ad Andria, dove a luglio è morta un’italiana invisibile, Paola, stroncata dalla fatica durante la selezione dell’uva, mentre provava a guadagnare i suoi 27 euro quotidiani. In un modo di produzione che globalizza quasi tutto, i salari nazionali restano disomogenei, e i capitali possono avvantaggiarsene, delocalizzando le imprese o assumendo in loco precari e migranti. In Italia ci sono circa 5 milioni di stranieri residenti e oltre 300.000 irregolari, due bacini indispensabili a rianimare da un punto di vista demografico ed economico un paese in coma da anni. Soprattutto dal secondo gruppo – ma non solo, lo testimonia la stessa vicenda di Nardò –, imprenditori senza scrupoli attingono dannati della terra come Mohamed: uomini senza voce, senza tutele giuridiche, senza altro potere contrattuale che la forza delle loro braccia, senza altro bene da difendere che la loro nuda vita. Spremuti fino al midollo dallo stesso paese che sempre più spesso li disprezza, che fomenta una grottesca ricerca del capro espiatorio e una guerra tra miserabili italiani e stranieri molto conveniente al padronato.
Il caldo pugliese sarà anche killer, come lascia intendere il Corriere del Mezzogiorno, insinuando in fondo l’idea che Mohamed sia morto per un’ineluttabile disgrazia naturale. Ma ancora più letali sono la ferocia di capisquadra e caporali, la mancanza di una legislazione adeguata, la connivenza ammantata di finto umanitarismo che si annida nei vari «aiutiamoli a casa loro» o «colpiamo gli scafisti», la xenofobia di politici e imprenditori, che invocano ruspe e urlano «a casa», ma poi fanno finta di non vedere o, peggio, impiegano direttamente manodopera schiavile.
Il processo di unificazione europea vagheggiato da Kant e dal Manifesto di Ventotene, in tal modo, rischia di realizzarsi solo nel suo volto più truce, fatto di muri e reticoli, di inflessibili parametri finanziari, di sorda indifferenza e bieco sfruttamento. Ma se il Vecchio Continente deve diventare una tomba del nostro senso di umanità, allora forse è il caso, per citare ancora una volta Frantz Fanon, di abbandonare al suo destino l’Europa, almeno questo modello di Europa, «che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo».
Photo: Berlin: Refugees demo to Oranienplatz © Montecruz Foto – CC BY SA 2.0