Georg Feldhahn, il poliziotto della Stasi che voleva vivere ad Ovest
Georg Feldhahn (12 Agosto 1941-19 Dicembre 1961) di Elena Galastri
(dal Workshop di Scrittura Creativa “Scrittori Emigranti”)
Fa freddo. Tremendamente freddo. Oggi è il 19 Dicembre e nell’aria si respira già l’atmosfera natalizia. Peccato che devo prestare servizio stasera, a partire dalle 21:00; peccato, sì, perché avrei potuto vedere Astrid e chiarire con lei, visto che le cose non stanno andando per nulla bene ultimamente.
Quando due anni fa decisi di arruolarmi come poliziotto di frontiera con la Stasi, ero forse troppo giovane e incosciente per capire veramente la portata della mia scelta.
La recente costruzione del muro poi mi era apparsa davvero esagerata, estrema: dal 13 Agosto le cose non erano più come prima.
Mi dirigo verso il Teltowkanal, dove dovrò stare di guardia. È ancora presto e penso che non sarebbe poi così male se mi facessi un goccetto con Franz e Albert, i miei camerati. Ci incontriamo alle 19:00 in punto in un pub storico della zona. L’alcol mi riscalda le tempie e pensare non mi fa più così male. Alzo di nuovo il gomito e ingurgito l’ennesima vodka. Usciti dal locale riusciamo a malapena a camminare. Perfetto, che problema c’è, dobbiamo solo prestare servizio per una notte intera:una stramaledettissima notte.
A fatica ci trasciniamo fino alla postazione: non si vede anima viva in giro. Il tempo scorre noioso e il fumo delle sigarette appanna i vetri del nostro bunker e i nostri cervelli. Alle ore 22:00 ricevo l’ordine di controllare un dispositivo segnaletico nei pressi di Massantenbruecke. Munito di una piccola torcia mi dirigo lentamente verso il ponte, ma non ho alcuna voglia di rimettere a punto quello stupido aggeggio. Comincio a ridere come uno stupido, una risata isterica; spengo la torcia e mi ritrovo in mezzo al ponte, nel buio più totale. Brividi caldi mi attraversano la schiena. “Dio mio”, mi dico, “dall’altra parte c’è la Berlino Ovest che mi aspetta!, qualche passo in più e ci sono”. Accendo di nuovo la torcia, giusto per capire dove mi trovo. Il vento mi congela il respiro; il desiderio di ribellione mi pervade. Non riesco a controllare il mio corpo: le gambe deboli si dirigono autonomamente verso l’altra estremità del ponte. Ho una pistola con me e non può succedermi nulla. Muovo i primi passi a fatica e poi mi concentro per poter avanzare un po’ più velocemente. In lontananza sento già delle voci: ho paura, una paura tremenda. Pochi metri e ho già oltrepassato il confine. Il muro ora è come se fosse sparito, è diventato una linea immaginaria. Le voci delle guardie si fanno sempre più pulite e distinte. Afferro la mia pistola e come un pazzo comincio a sparare colpi nel vuoto, tre o quattro mi pare. Mi sento braccato e spero che gli spari possano far provare ai mie ex commilitoni almeno lo stesso terrore che in quel momento sta attraversandola mia anima. Cerco di correre, ma si rivela la cosa più difficile del mondo, proprio come quando si sogna di essere inseguiti e inspiegabilmente non ci si riesce a muovere. Ero in fuga per evitare la morte, per sfuggire ai proiettili di coloro che solo poche ore prima avevo chiamato fratelli.
Sono completamente congelato; rovino a terra e perdo la mia torcia. “Sono ad Ovest” mi dico “Sì, sono ad Ovest!”. Il buio mi circonda e mi ritrovo forse in un parco. Brandelli di vegetazione mi graffiano il volto ma cerco di proseguire, inciampo di nuovo e avverto un gran dolore alla gamba.
Dei lampioni lontani creano dei raggi di luce arancione; la mia vista rimane comunque molto offuscata. Doveva essere mezzanotte circa. In fondo alla vegetazione fitta intravedo uno specchio d’acqua. “Devo attraversare il fiume, devo assolutamente farlo, così perderanno le mie tracce. Bastardi” pensai.
Non ho altra scelta. Non posso più tornare indietro. Mi tuffo nell’acqua gelida e sporca: mi rendo subito conto che forse in fondo non è stata una buona idea. Ormai il gelo si riversa in ogni mio singolo muscolo. Non riesco a muovermi e lentamente abbandono i miei sensi. Mentre il respiro si fa sempre più corto, mi immagino i miei polmoni pieni d’acqua, quasi fino all’estremità. Ripenso poi al volto rugoso di mio padre, fiero, quando pochi anni prima mi vide indossare la divisa e mi espresse un sonoro “Bravo figliolo, sono fiero di te!”.
Mi ero sempre chiesto come fosse morire: ebbene, è ancora più tragico di quanto lo si possa immaginare. Me lo ero meritato: sì, perché in fondo ero un disertore.
Foto di copertina: Berlin – “Der Sozialismus Siegt!” © Roger W CC BY-SA 2.0
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