Berlino e quegli amori che nascono quando ormai stai per lasciare la città
Io il caffè nemmeno lo bevo, mi dissi. Era un un pomeriggio di Aprile e vivevo a Berlino da qualche mese, in una stanza grande e spoglia, tutta pareti bianche esposte e mobiletti di compensato dall’aria precaria, in un arioso appartamento di Mitte. L’appartamento, con le sue pareti altissime, i muri di vetro e una miriade di bellissime orchidee colorate appoggiate qua e là, si trovava a pochi passi dalla Sprea. Quell’inverno mi toccava attraversare il ponte ogni sera, e amavo osservare le gigantesche scaglie di ghiaccio agitarsi nel fiume gonfio e grigio.
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Aspettavo quel ragazzo dai capelli scompigliati che avevo conosciuto in un bar di Mitte dove l’aria era densa di fumo, una band jazz suonava sul palco e accanto a noi un berlinese dall’aria stanca che ci chiedeva, per favore, di fare silenzio, perché voleva sentire la musica, non la storia della nostra vita. Noi però non riuscivamo a smettere di parlare.
La mia padrona di casa era una signora sulla sessantina, dai capelli grigi perennemente raccolti in una treccia rigorosa e dallo sguardo severo. Originaria di Monaco, si era trasferita a Berlino quarant’anni prima, e per i primi tre o quattro mesi della mia permanenza la sua frase preferita era “bitte nicht…”. A sentire lei, non riuscivo proprio a fare nulla come si deve. Il giorno in cui mi trasferii mi raccomandò di non usare troppa carta igienica: “Qui in Germania non è come in Italia, la carta igienica non è sottile. Ah, e va piegata, mica accartocciata!”. Annuii. Poi, su come si bolle l’uovo: “Fallo nella pentola di ceramica, non in quella di metallo”. Le raccomandazioni continuavano toccando materie importanti come la disposizione degli abiti da asciugare sui termosifoni e la quantità giusta di detersivo da usare, in millilitri. Per fortuna anche lei aveva una vita fuori da quell’appartamento e dopo alcune settimane partì per un viaggio in India, lasciandomi finalmente da sola. Non era un mostro, ma per apprezzarla avrei dovuto aspettare altre settimane e scoprire che per ammansirla bisognava farle bere un paio di bicchieri di vino la sera.
Non avevo mai invitato prima un ragazzo a casa per chiacchierare. E forse, se non fossi stata a Berlino, non l’avrei mai fatto. Avrei aspettato mesi e mesi interpretando ogni sguardo e analizzando ogni messaggio, discutendone a lungo con le amiche, struggendomi sulle cose dette e, soprattutto, quelle non dette. Avrei cercato scuse per finire in sua compagnia, studiato i segnali da dare e cosa dire, come incrociare le gambe finché ogni azione non avrebbe perso naturalezza e sarei finita in una versione recitata della mia stessa vita.
Ma ero a Berlino e mi sentivo libera di rischiare. E allora, in quel bar, qualche giorno prima, mi era venuto naturale invitarlo: “Ti va un caffé da me domenica?”. Che poi, quando il giorno dell’appuntamento arrivò, ripensai che io il caffè non lo bevo nemmeno… Un tè sarebbe andato bene lo stesso? Io un tè, lui un caffè, non poteva essere un problema. Quella mattina l’unico supermercato aperto era l’Edeka della stazione di Friedrichstrasse. Di fretta, comprai una confezione di caffè istantaneo e due tipi di latte (intero e parzialmente scremato. Non si sa mai).
Misi a posto casa. Attesi. Riposi al citofono. Gli aprii la porta. Gli feci togliere le scarpe. Appesi la sua giacca. Lo aspettati mentre in bagno si lavava le mani, ma già da dietro la porta avevamo re-iniziato a parlare senza sosta come era accaduto nel bar. Lo accolsi in cucina. “Tè o caffè?” Anche lui scelse di bere un tè: erano mesi che non ne beveva uno come si deve, mi disse. Come si deve, nel suo Paese, il Regno Unito, si traduce il un tè leggero con molto latte (intero, nel suo caso). Glielo servii nella sala da pranzo. Ci sedemmo sul divano, osservando dall’enorme finestra la vita di Berlino che scorreva e mille vite snodarsi di fronte ai nostri occhi. I due gatti, Max e il gatto bianco di cui non avevo mai imparato il nome, ci saltarono in grembo e si lasciarono coccolare mentre ci raccontavamo storie. Quel giorno nevicò. Ci accorgemmo appena del sole che era tramontato quando lui mi salutò con un rispettoso abbraccio.
La confezione di caffè istantaneo rimase invece intatta fino alla mia partenza, quando decisi di abbandonarlo in cucina, tra le ceste di arance e limoni. Prima di andarmene, la padrona di casa mi disse: “Guarda che io il caffè non lo bevo”. “Non fa niente, non lo bevo nemmeno io”. E partii. Da allora sono passati due anni e molte cose sono cambiate. Non vivo più a Berlino ma non posso fare a meno di ricordarla con un sorriso. A volte io e quel ragazzo dai capelli scompigliati passeggiamo lungo il Tamigi e ci piace immaginare che sia la Sprea, e fantasticare sul giorno in cui abbandoneremo Londra, così caotica, sovrappopolata e costosa, e riabbracceremo gli spazi ampi e le linee geometriche della nostra Berlino.
Photo: © Sascha Kohlmann CC BY SA 2.0
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