Nizza e quel senso di impotenza: non sappiamo cosa fare né contro chi stiamo combattendo
Probabilmente è un pensiero banale, ma dopo Nizza è normale continuare chiedersi cosa si possa fare per fare finire questa guerra, con chi bisogna interloquire, quali azioni concrete – che sia il disinteressarsi completamente della questione medio-orientale, cercare di migliorare concretamente le condizioni di vita di quegli immigrati di prima, seconda o terza generazione che vivono già nei Paesi occidentali, rimborsare in qualche modo tutti quei paesi che abbiamo depredato durante il colonialismo o altro ancora – per ritrovare quella pace che, ad oggi, sembra così impossibile da immaginare nel lungo periodo. Non sapere chi ci sta facendo la guerra e perché (un perché chiaro, non un insieme di pensieri sociologici), ovvero l’impossibilità di comprendere questo terrorismo è uno degli aspetti principali del perché faccia così paura. È chiaro che dietro al tutto, come già in passato, ci siano odio, rabbia, pazzia e desideri di rivoluzione, ma che rivoluzione? Quale concetto di libertà estraneo al nostro può essere ambito attraverso azioni del genere?
I terrori passati infondevano la paura per uno scopo che arrivava chiaro alle società colpite. Il Comitato della salute pubblica del 1793 (fa strano oggi pensare come il termine terrorista sia legato, oggi come allora, al 14 luglio) si comportava in tal modo perché pensava, così, di mantenere salva la Repubblica e il potere dei giacobini. Era un altro tipo e significato di terrore/terrorismo da quello sviluppatosi successivamente , ma ciò che conta sottolineare é che allora, come quasi sempre a seguire, l’omicidio a fini ideologici e rivoluzionari, la violenza era immaginata come uno strumento e non come il fine stesso. Che fossero i partigiani, i baschi, i brigatisti, l’Ira, l’Olp o algerino per la liberazione dell’Algeria, che fosse legittimo o ingiustificabile, salvo casi isolati, prima di quest’epoca si riusciva sempre a capire esattamente chi, perché e, soprattutto, con quale scopo, erano stati uccisi innocenti. Qui si colpisce indiscriminatamente, spesso (come Istanbul dimostra) anche tanti musulmani. Non è una guerra di religioni o valori, eppure allo stesso tempo lo è.
Oggi noi occidentali, per quanto possiamo colpevolizzarci per le politiche coloniali dei nostri nonni e genitori, di non aver contrastato abbastanza, solo per parlare degli ultimi trent’anni, gli interventi in Iraq, Afghanistan e Medio Oriente in Generale o di non lottare per una più equa distribuzione della ricchezza sia interna alla nostra società che globale, a partire dal Bangladesh passando per l’Africa tutta (nord e centro in particolare), non abbiamo chiaro cosa fare, o meglio, cosa potere fare per allontanare questo senso di impotenza che ci rende tutti possibili vittime, che si abiti in grandi città o piccole città, che si prenda l’aereo o si vada a vedere un concerto, che si scenda per fare una passeggiata sul lungomare o ci si trovi in un caffè con amici. Siamo vicini al collasso? Forse. Possiamo continuare a pensare che “continuando a vivere come nulla fosse” alla lunga abbasseremo l’eco di queste pazzie e, di conseguenza, il loro numero. Eppure non è così semplice ora – solo per fare un esempio banale – pensare di pianificare un viaggio di piacere a Parigi senza lasciarsi attrarre dalla maggiore, apparente tranquillità che emana Lisbona. Le azioni, e ancora prima i pensieri, sono già stati modificati. Siamo in guerra e non sappiamo contro chi combattere. O, meglio, cercare di concordare una pace.