Morto lo scrittore Günter Grass. Una raccolta delle sue frasi più belle

È morto a 87 anni Günter Grass, uno dei più grandi scrittori contemporanei tedeschi e mondiali in generale, Premio Nobel del 1999. Il suo romanzo di esordio, Il tamburo di latta, è da più di 60 uno di quei capolavori della letteratura che chiunque dovrebbe aver letto: dentro c’è tutto, una prosa eccezionale, una storia tanto metaforica quanto originale, dramma familiare, commedia,  la Germania della guerra, quella dei rifugiati e una Danzica che non rivedremo più così come è sempre bello rileggere Gatto e Topo, Anni di cane, Il mio secolo o una delle tante poesie, racconti e articoli di giornale da lui firmati. Quasi dieci anni fa, nel 2006, la rivelazione (contenuta nel libro Sbucciando la cipolla) che da giovanissimo, durante la guerra, avesse miliari presso la 10. SS-Panzer-Division “Frundsberg” delle Waffen-SS, non come coscritto (così si era sempre pensato) bensì come volontario con il sogno di fare il sommergibilista gli attirò feroci critiche nazionali. La sua stella – per quanto sempre dibattuta, Grass non si tirava mai indietro quando c’era qualcosa di scomodo da dire dalla Nato ad Israele-  si offuscò (per un po’) prima che ci si rendesse conto che forse proprio lui, con la sua storia, rappresentava i tedeschi democratici (celebre la sua amicizia con Willy Brandt) ancor più di quanto si pensasse in passato.

Noi di Berlino Cacio e Pepe Magazine vogliamo celebrare il tutto con una raccolta di alcune delle frasi più belle di Günter Grass.

Citazioni

-Lo scrittore è un uomo la cui intelligenza non basta per smettere di scrivere.

-L’arte è intransigente e la vita è piena di compromessi

-Non sono un pacifista. A chi mi desse uno schiaffo sulla guancia non porgerei mai l’altra, ma mi difenderei a denti stretti. La guerra è per metà fatta di paura e per metà di noie. I giovani del mio paese non sono per la guerra. Non sono nemmeno per il servizio militare. Gli orfani di guerra, poi, la considerano il peggiore dei mali

-Dopodiché, crepuscolo dell’universo. Sopra le macerie del mondo strumentale, si arrampica il tempo universale…. Dopodiché l’essere-alla-mano taglia i tubi nell’inafferrabilità dell’inutilizzabile e suscita il problema segreto del comando…Dopodiché, le ultime emissioni trasmettono il crepuscolo degli dei. In virtù di se stesso. Dopodiché non c’è più tempo per un minuto di silenzio, in virtù di se stesso.…Dopodiché, nella zona governativa della capitale del Reich le emissioni radio si interrompono. La totalità territoriale, la nientificazione, inclini all’angoscia e da ricomporre pezzo per pezzo. La finalizzazione. La fine. Ma dopo tutto questo, sulla struttura finale il cielo non si oscurò. (da Anni di cane.)

Poesia – Quello che deve essere detto

Perché taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo

quanto è palese e si è praticato

in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,

noi siamo tutt’al più le note a margine.

E’ l’affermato diritto al decisivo attacco preventivo

che potrebbe cancellare il popolo iraniano

soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo

organizzato,

perché nella sfera di sua competenza si presume

la costruzione di un’atomica.

E allora perché mi proibisco

di chiamare per nome l’altro paese,

in cui da anni — anche se coperto da segreto —

si dispone di un crescente potenziale nucleare,

però fuori controllo, perché inaccessibile

a qualsiasi ispezione?

Il silenzio di tutti su questo stato di cose,

a cui si è assoggettato il mio silenzio,

lo sento come opprimente menzogna

e inibizione che prospetta punizioni

appena non se ne tenga conto;

il verdetto «antisemitismo» è d’uso corrente.

Ora però, poiché dal mio paese,

di volta in volta toccato da crimini esclusivi

che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,

di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se

con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,

dovrebbe essere consegnato a Israele

un altro sommergibile, la cui specialità

consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove

l’esistenza di un’unica bomba atomica non è provata

ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,

dico quello che deve essere detto.

Perché ho taciuto finora?

Perché pensavo che la mia origine,

gravata da una macchia incancellabile,

impedisse di aspettarsi questo dato di fatto

come verità dichiarata dallo Stato d’Israele

al quale sono e voglio restare legato.

Perché dico solo adesso,

da vecchio e con l’ultimo inchiostro:

La potenza nucleare di Israele minaccia

la così fragile pace mondiale?

Perché deve essere detto

quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;

anche perché noi — come tedeschi con sufficienti

colpe a carico —

potremmo diventare fornitori di un crimine

prevedibile, e nessuna delle solite scuse

cancellerebbe la nostra complicità.

E lo ammetto: non taccio più

perché dell’ipocrisia dell’Occidente

ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile

che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,

esortino alla rinuncia il promotore

del pericolo riconoscibile e

altrettanto insistano perché

un controllo libero e permanente

del potenziale atomico israeliano

e delle installazioni nucleari iraniane

sia consentito dai governi di entrambi i paesi

tramite un’istanza internazionale.

Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,

e più ancora, per tutti gli uomini che vivono

ostilmente fianco a fianco in quella

regione occupata dalla follia ci sarà una via d’uscita,

e in fin dei conti anche per noi.

Incipit Gatto e topo

… e una volta, quando Mahlke già sapeva nuotare, ce ne stavamo sdraiati sull’erba, vicino il campo di palla a caccia. Io sarei dovuto andare dal dentista, ma loro non me l’avevano permesso, perché ero difficile da sostituire come ricevitore. Il dente rumoreggiava. Un gatto strisciò diagonalmente attraverso il prato, senza che nessuno lo bombardasse. Alcuni masticavano o sfilacciavano fili d’erba. Il gatto appartenava al guardiano del campo ed era nero.

Incipit di Il Tamburo di latta

Non lo nego: sono ricoverato in un manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso; mi scruta anche attraverso lo spioncino della porta, ma il suo sguardo non può penetrarmi poiché egli ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti.

….Il mio infermiere non può dunque essermi nemico. Ho preso a volergli bene, a questo controllore appostato dietro lo spioncino. Appena mi entra nella stanza, gli racconto vicende della mia vita; così, nonostante lo spioncino che di solito lo separa da me, impara a conoscermi. Il brav’uomo sembra apprezzare i miei racconti, perché appena si accorge che gli ho mentito ci tiene a farmelo capire e mi mostra la sua ultima composizione di nodi. Non vorrei affrontare il problema di stabilire se sia un’artista. Una mostra delle sue creazioni sarebbe però accolta con favore dalla stampa, e attirerebbe qualche compratore. Egli fa nodi con spaghi comuni che dopo le ore di visita raccoglie e districa nelle camere dei suoi pazienti, creando complessi fantasmi cartilaginosi; li immerge nel gesso, li lascia irrigidire e li infilza su ferri da calza, fissati sopra zoccoletti di legno.

….Spesso accarezza l’idea di colorare queste sue opere. Lo sconsiglio, gli addito il mio letto metallico laccato di bianco e gli chiedo se potrebbe immaginarselo variopinto, perfetto com’è. Allora, alzando le sue mani di infermiere, disperato e rabbuiandosi in volto, tenta di dare espressione simultanea a tutte le ansie che lo assalgono, e desiste dai suoi variopinti piani.

….Il mio candido letto metallico è dunque un termine di paragone. Per me è persino qualcosa di più: rappresenta la meta finalmente raggiunta, è la mia consolazione, e potrebbe diventare la mia fede se la direzione del manicomio mi permettesse di apportare qualche cambiamento: vorrei far elevare le fiancate perché nessuno mi si avvicini troppo.

….Il giorno di visita, una volta alla settimana, interrompe la mia quiete intrecciata a bianche sbarrette di metallo. Vengono quelli che vogliono salvarmi, che ci trovano gusto ad amarmi, che in me vorrebbero stimarsi ed imparare a conoscersi. Come sono ottusi, nervosi, maleducati. Con le forbici per le unghie fanno graffi nell’intelaiatura metallica del letto, disegnano sulla lacca con le loro matite colorate e con le penne a sfera lunghi pupazzetti indecenti. L’avvocato, dopo aver scosso la stanza col suo “salve”, ficca sempre il cappello di nailon sul pomo di sinistra, in fondo al letto. Per tutta la durata della sua visita – gli avvocati hanno sempre molto da raccontare – mi porta via l’equilibrio e la serenità, con quel gesto violento.

….Dopo che i visitatori hanno deposto i doni sul tavolino bianco coperto di tela cerata, proprio sotto gli anemoni dipinti all’acquerello, dopo avermi esposto nei particolari i tentativi di soccorso già intrapresi o meditati, poiché instancabilmente vogliono salvarmi, dopo avermi convinto dell’alto livello del loro amore verso il prossimo, ritrovano il gusto della propria esistenza, e mi lasciano. Poi viene l’infermiere ad arieggiare la stanza e a raccogliere gli spaghi dei pacchetti dei doni. Spesso, dopo che l’aria è ritornata pura, trova ancora tempo, mentre snoda le cordicelle seduto accanto al mio letto, di diffondere silenzio così a lungo che chiamo silenzio Bruno, e Bruno silenzio.

….Bruno Münsterberg – intendo il mio infermiere, lasciamo perdere il gioco di parole – ha comperato per mio conto cinquecento fogli di carta da scrivere. Se la provvista non basterà, Bruno, che è celibe, senza figli, e originario del Sauerland, tornerà nella cartoleria (dove si vendono anche giocattoli) e mi procurerà altro spazio vuoto per l’esercizio della mia facoltà mnemonica, che spero precisa. Mai avrei potuto dare un simile incarico ai miei visitatori, poniamo all’avvocato o a Klepp. Un’affettuosa sollecitudine, prescrittami quale cura, avrebbe certo impedito agli amici di portarmi una cosa tanto pericolosa come i bianchi fogli di carta, e di abbandonarli all’uso della mia mente che distilla, senza tregua, sillaba dopo sillaba.

….Quando dissi a Bruno: “Senti, Bruno, mi compreresti cinquecento fogli di carta vergine?” Bruno, levando lo sguardo al soffitto e l’indice nella stessa direzione come se sollecitasse un paragone, rispose: “Intende dire carta bianca, signor Oskar?”

….Insistetti sulla parola “vergine” e chiesi a Bruno di esprimersi così anche nel negozio. Quando nel tardo pomeriggio ritornò col pacco, mi parve ostentatamente sopra pensiero. Di continuo e con insistenza fissava il soffitto dal quale sembrava voler trarre ogni ispirazione. Infine esclamò: “Lei mi ha raccomandato di usare la parola giusta. Ho chiesto carta vergine e la commessa è arrossita tutta, prima di consegnarmi quanto le avevo chiesto.”

….Poiché temevo un lungo discorso a proposito delle commesse di cartoleria, mi pentii di aver chiamato vergine la carta. Perciò non dissi altro, attesi che Bruno fosse uscito dalla stanza e solo allora aprii il pacco coi cinquecento fogli di carta.
….Non soppesai a lungo il pacco, poco flessibile. Contai dieci fogli e riposi gli altri nel comodino; trovai la stilografica nel cassetto accanto all’album di fotografie: è piena, l’inchiostro non verrà meno, come comincio?

….Un racconto non può iniziare entrando subito nel vivo dell’argomento e, procedendo arditamente innanzi o indietro nel tempo, creare una certa confusione. Ci si può atteggiare a scrittore moderno, ignorare il tempo e la distanza, e proclamare o far proclamare poi di aver finalmente risolto il problema spazio-tempo. Si può anche affermare, fin dall’inizio, che al giorno d’oggi è impossibile scrivere un romanzo, ma poi, per così dire, scriverlo in barba a se stessi, deporne uno bel grosso e finire col venir considerato l’ultimo romanziere possibile. Ho anche sentito dire che si fa un’ottima impressione di modestia iniziando col sostenere fermamente che: non ci sono più eroi da romanzo, perché gli individualisti non esistono più, perché l’individualismo va scomparendo, perché l’uomo è solo, ogni uomo egualmente solo, senza diritto a una solitudine individuale, e fa parte di una massa senza nome e senza eroi. Tutto ciò può essere giusto, corrispondere davvero alla realtà. Quanto a me, Oskar, e al mio infermiere Bruno, vorrei però che fosse chiaro questo: ambedue siamo degli eroi, due eroi totalmente diversi, lui dietro lo spioncino, io dall’altra parte; e se egli apre la porta, nonostante la nostra solitudine e la reciproca simpatia, noi siamo ancora ben altro che una massa senza nome e senza eroi.

….Prenderò le mosse lontano da me stesso; poiché nessuno dovrebbe descrivere la propria vita se non sente di possedere la pazienza, prima di datare la propria esistenza, di commemorare almeno una buona metà degli avi. A tutti voi che fuori dalla mia casa di cura dovete condurre un’esistenza confusa, a voi amici e visitatori settimanali che non sospettate nulla della mia riserva di carta, voglio presentare la nonna materna di Oskar.

Photo: © Christoph Müller-Girod CC By SA 2.0