Noi, Berlino: Michele Barox
Noi, Berlino è un progetto di “deep interviews” con base a Berlino, nato da un’idea di Ercole Gentile, Mattia Grigolo e Andrea D’Addio
Intervista di Ercole Gentile
Michele ‘Barox’ D’Alessio è un simbolo dell’Italia “alternativa” a Berlino. Impossibile non conoscerlo se si frequenta il mondo dei concerti della capitale o non averlo incrociato in una delle tante serate dove suona come dj.
Nato a Torino nel 1965 da genitori emigrati da Rocchetta Sant’Antonio, paese di 1800 anime nella provincia di Foggia, al confine con tra Puglia e Campania, figlio di quell’ondata di immigrazione che dal meridione salì nel nord industriale in cerca di lavoro e di una nuova vita, Barox diventa, con il tempo, un riferimento della cultura underground italiana d’esportazione, prima come batterista di una della band simbolo del genere punk-hardcore come i Negazione e poi come promoter, proprietario del negozio di dischi Piatto Forte e dj. La sua apertura mentale lo porta a viaggiare di continuo e contaminarsi. Anche se la sua casa è Berlino, per oltre trent’anni, si è mosso tra Amsterdam, New York e Barcellona assorbendo nuove culture e suoni.
Il giorno che lo andiamo a scovare nella sua tana nella zona di Urbanstrasse – in quella Kreuzberg con la quale si sono visti crescere, diventare adulti, cambiare anno dopo anno – il cielo sembra l’imperforabile muro grigio che solo l’inverno berlinese sa alzare.
La sua casa è accogliente, ovviamente piena di dischi e dei tanti memorabilia delle diverse fasi della sua fascinosa vita.
Partiamo dalle origini, Michele. Dove e come inizia la tua vita?
Nasco a Torino e sono figlio di quell’ondata di immigrazione dal Sud Italia che ha interessato il nord negli anni sessanta. Sono cresciuto in un quartiere semi-residenziale, Santa Rita, abbastanza vicino allo Stadio Olimpico. Invece poi a quindici anni ci siamo spostati nella cintura, a Collegno, poi verso i vent’anni ho cominciato a girare facendo musica.
I tuoi genitori cosa facevano, che aria si respirava in casa?
Mio padre lavorava in fabbrica, mia madre in una scuola. Mio padre suonava la batteria e il violino, facendo specialmente il valzer in centri per anziani o situazioni del genere. Mi ritengo in qualche modo un figlio d’arte, visto che lui tutte le domeniche dopo il pranzo suonava in casa insieme ad altri parenti: uno zio alla chitarra, un altro cantava e mio padre il violino. E’ stata la mia iniziazione alla musica.
E invece quali sono stati i tuoi primi ascolti musicali autonomi?
Ho avuto la fortuna di avere dei cugini che mi hanno fatto scoprire la musica hard-rock, andavo con loro a qualche concerto, ricordo ad esempio i Rolling Stones a Torino nel 1982 allo Stadio Olimpico: ero minorenne ma in qualche modo riuscii a entrare.
Poi mi sono avvicinato all’heavy metal: band come Van Halen, Iron Maiden, Saxon, finché un giorno, a sedici anni in vacanza a Grado, conosco due ragazze (una delle due era la fidanzata di uno dei Not Moving, tra le formazioni più note della scena underground degli anni Ottanta), le quali mi fanno ascoltare per la prima volta la musica punk. Sono rimasto folgorato e, tornato a Torino, ho deciso di frequentare quel giro.
Com’era quella Torino? Tutta casa e fabbrica o c’era una scena musicale attiva?
Torino all’epoca viveva all’ombra della Fiat, si era nel post-terrorismo, un sacco di degrado e Polizia per le strade. L’eroina le faceva da padrona. Non ho un bellissimo ricordo, dopo le otto di sera era deserto, tranne rare eccezioni. A noi però, da adolescenti, bastava stare insieme ad ascoltare musica su una panchina oppure iniziare a suonare nelle cantine o nei centri giovanili di quartiere, dove una band che faceva punk-hardcore divideva la sala con i pensionati che ballavano il valzer. Quando ho iniziato a suonare con i Negazione, facevamo le prove all’interno di una chiesa valdese. C’era da ingegnarsi, non c’era nulla, ma la musica era la nostra valvola di sfogo.
I punk non erano così popolari a quel tempo in Italia. Ti è mai capitato di essere stato bullizzato?
Il movimento punk era un movimento di rottura rispetto a quanto era venuto prima, anche politicamente alla sinistra.
Non eravamo visti di buon occhio praticamente da nessuno. A sinistra ci vedevano con questi giubbotti neri e le creste e non capivano se eravamo di destra. Ovviamente eravamo visti male dai fascisti e pure dalla Polizia. Ogni giorno c’era da discutere.
Eravamo una novità che spiazzava tutti.
Poi un giorno diventi batterista di una band che segnerà la storia del punk italiano (e non solo), i Negazione.
Tutto è iniziato per caso. I batteristi sono sempre stati richiestissimi, nel 1983 eravamo in pochi. Per un periodo suonavo addirittura con sei band contemporaneamente e i Negazione cercavano, appunto, qualcuno di nuovo dietro le pelli. Frequentavamo gli stessi ambienti e un giorno ho iniziato a fare le prove con loro. Sicuramente sono il gruppo con cui ho suonato di più in giro, abbiamo iniziato a fare dei tour in Italia, Milano, Bologna, ma ricordo anche un concerto leggendario a Bari nel 1984 a La Giungla, in un quartiere molto periferico della città. Era stato organizzato un mini-festival con alcune delle band più importanti della giovane scena hardcore italiana: oltre a noi c’erano i Wretched, i Kina, gli Impact e un gruppo di Bari che ha fatto la storia: i Chain Reaction.
Siamo poi partiti in un centinaio per partecipare ad un festival contro il nucleare a Crotone. Immaginati questi cento punk che sbarcano da un treno in Calabria, a metà anni Ottanta: la gente ci guardava come dei marziani.
Stiamo parlando di un’epoca dove la tecnologia non c’era, ma eravamo riusciti a creare comunque un network – via posta – dove ci scambiavamo fanzine autoprodotte, cassette, creavamo anche connessioni con la Germania, gli Usa, il Giappone.
Incredibilmente siamo riusciti ad organizzare questo mini-tour europeo in Interrail, in due band di Torino: i Negazione e i Declino.
Il tuo primo approccio con l’Europa avviene quindi così.
Esatto. Il programma prevedeva di fare date in Germania, Olanda e Danimarca. Io sono partito prima perchè ho raggiunto i Kina che avevano una data a Berlino. Fu un’odissea. Viaggiavo con un mio amico ed entrambi eravamo piuttosto appariscenti con le nostre creste colorate. Siamo arrivati al Brennero in treno e poi abbiamo proseguito in autostop. Ci sono voluti tre giorni per arrivare qui, ci siamo ritrovati in mezzo al nulla, al confine con la Germania dell’Est. Era l’estate del 1984 quando arrivai per la prima volta a Berlino.
La prima a data con i Negazione fu a Bielefeld e il giorno dopo ad Hannover, concerto che però annullarono a causa di scontri tra punk, skins e autonomi.
La data a Berlino si organizzó in un club, il Nox, a Tiergarten, che tra l’altro, almeno fisicamente, esiste ancora. La sensazione fu immensa. Il gruppo, anche se non era ancora conosciuto, riscosse un notevole successo da parte del pubblico. Essendo abituati, almeno fino a quel tour, alle situazioni italiane, ciò che a me rimase impresso, fu l’organizzazione tipicamente nord europea.
Come fu il primo impatto con la città?
Io diciottenne che arrivavo da una città industriale, dove ero visto come quello strambo, sempre guardato male, fermato costantemente dalla Polizia, mi sono ritrovato nella città che era il baluardo della vita alternativa: case occupate, concerti sette giorni su sette. Improvvisamente, i miei capelli colorati e i miei pantaloni stracciati non erano più un problema.
Kreuzberg e Schöneberg erano i nostri punti di riferimento, succedeva qualcosa sempre: c’era già il leggendario SO36 a Kreuzberg, c’era X (che poi è diventato il Clash), il Cob, c’era un locale gestito dagli Einstürzende Neubauten a Schöneberg, e poi c’erano alcune disco come Die Dschungel e l’Ecstasy.
Come prosegue poi il tuo rapporto con i Negazione?
Con i Negazione ho suonato per due anni, incidendo due EP: “Mucchio selvaggio e “Tutti pazzi”. A un certo punto mi sono stancato di Torino, volevo cambiare aria e sono uscito dalla band.
E da lì cominci a fare il nomade.
Esatto. Prima ho fatto la spola tra l’Italia e Berlino e poi, nel 1989 quando cade il Muro, conosco una ragazza di Amsterdam e mi trasferisco per un periodo in Olanda.
Ti ricordi il primo giorno che sei arrivato a Berlino?
Ricordo più che altro quando ho fatto l’Anmeldung, ovvero ho preso il domicilio qui. Ho pensato: ok, ora sono a tutti gli effetti un berlinese, è ufficiale. Era il 1988, dopo quattro anni di spola avevo regolarizzato la mia posizione.
Avevo un modesto appartamento, ma frequentavo spessissimo le case occupate, praticamente ci vivevo. Già all’epoca si parlava di regolarizzarle, si cercava un accordo tra la città, gli occupanti e un gruppo di architetti, rendendo partecipi gli abitanti delle case nelle ristrutturazioni e nei progetti degli edifici.
Mi sono ritrovato a far parte di un collettivo a Kreuzberg, e sono riuscito a lavorare lì per un periodo, facendo il tuttofare in questo progetto di ristrutturazione. Ho sempre cercato di stare lontano dalla gastronomia, perché, soprattutto all’epoca, non era un ambiente lavorativo piacevole.
Era una Berlino molto più economica di oggi.
Considera che gli affitti erano bassissimi, il costo della vita era irrisorio, bastava davvero poco per campare. Le case avevano ancora il bagno sulle scale e il riscaldamento a carbone. Ma quando hai vent’anni non sono cose a cui dai peso, anzi, andava benissimo, io volevo andare in giro e conoscere gente, quindi mi adattavo facilmente.
Ti ricordi dove eri il giorno della Caduta del Muro?
Certo, quel giorno ero con la mia fidanzata olandese in un centro giovanile sulla Potsdamer Strasse, dove si potevano stampare foto in pellicola. In quel periodo eravamo appassionati di fotografia in bianco e nero e siamo stati molte ore in camera oscura, perdendo la percezione del tempo.
Verso le dieci e mezzo di sera mi avvio da solo verso casa, a Kreuzberg, e in giro si sente una strana sensazione, oltre al fatto che per strada si vedono parecchie Trabant, le auto tipiche della Germania dell’Est.
Una volta dentro casa, i miei co-inquilini mi avvertono che hanno sentito alla radio che è caduto il Muro. Decido però di non uscire quella sera, non sapevo cosa avrei trovato in strada e preferii rimanere a casa.
Quando sei andato per la prima volta a Berlino est?
Ci ero già stato prima della caduta del Muro, a dire il vero. Un gruppo di amici romani mi aveva chiesto di accompagnarli a un festival punk, il Fruehling Festival, e accettai, ero molto curioso.
Fu una situazione surreale. Ci furono prima contatti via lettera tra questo mio amico di Roma, la cui band si chiamava Lager, e l’organizzatore a Berlino est, poi il giorno prima del festival ci sentimmo tramite telefono fisso per darci appuntamento al Checkpoint di Friedrichstrasse per il giorno dopo. Dovevamo fare il controllo in quello che poi è diventato famoso come il Tränenpalast (il palazzo delle lacrime).
Ricordo ancora il rumore della porta che si chiuse dietro di me quando rimasi da solo nella stanza con la Polizia. In quel momento pensai che ero in una terra di nessuno e sarei anche potuto scomparire.
Per accedere ad Est serviva il passaporto e il cambio di 20 marchi. Fortunatamente filò tutto liscio e, attraversato il confine, era come essere entrati in una macchina del tempo, dritti negli anni Cinquanta.
Gli organizzatori ci vengono a prendere e ci portano in questa chiesa di Mitte (Kirche Von Unten) sulla Invalidenstrasse, nel cui cortile c’era il festival. Una situazione strana perché, teoricamente, quell’evento sarebbe dovuto essere segreto, ma non ci sono dubbi che la Stasi sapesse dello svolgimento, anzi probabilmente c’era anche qualche infiltrato nell’organizzazione.
Il festival era un riferimento per il punk del blocco socialista, c’era gente che arrivava dalla Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia. Noi eravamo già più vicini al punk-hardcore americano e ci vestivamo con fazzoletto in testa, jeans e camicie, mentre lì erano ancora fermi al punk 77 inglese, quindi con creste e chiodo in pelle nera.
Ricordo questa scena forte, di ragazzi che pogavano e, a un certo punto, compaiono sui muri della chiesa i poliziotti con le braccia conserte che controllano. Come dire: vi lasciamo fare, ma vi osserviamo.
Però decidi di non spostarti ad Est, ma di restare a Kreuzberg.
Nel 1990 ho partecipato attivamente alla creazione della Köpi, questo centro sociale che esiste ancora oggi. Organizzavo parecchi concerti, tra cui ricordo i 99 Posse quando ancora erano sconosciuti. Quindi frequentavo molto l’Est, ma decisi di rimanere a Kreuzberg, a Ovest, anche perché in cinque minuti a piedi ero ovunque.
Poi un bel giorno si parte per New York via Amsterdam.
Esatto. Facevo già molto spesso la spola con la capitale olandese con Helena, lei aveva già abitato a New York, aveva parecchi contatti e decidemmo quindi di spostarci lì.
La Grande Mela nel ’91 era una città completamente diversa da ora, ho riassaporato quella sensazione di esplorazione che c’era a Berlino Est dopo la Caduta.
Era una città molto europea, ma allo stesso tempo con mille influenze diverse che la contaminavano. Anche con la musica mi sono confrontato con altri generi, c’era moltissima sperimentazione.
Il costo della vita era però molto alto. Io lavoravo per un teatro sperimentale, ma i soldi non bastavano e ho dovuto fare i conti con la realtà. Inoltre, avevo anche un problema di visto, mi ero trattenuto più del dovuto con quello turistico e quindi anche a livello burocratico c’erano problemi. Dopo un anno decisi quindi di tornare in Europa e finì anche la mia storia con Helena, con la quale ho mantenuto poi un ottimo rapporto. Lei vive ancora lì, nel Lower East Side.
E si torna a casa, ovvero a Berlino.
Sì, dopo un breve periodo a Torino torno qui. Berlino era sempre rimasta nel mio cuore, era il mio punto di riferimento (avevo ancora la residenza qui tra l’altro) e nel 1993 ho deciso di fermarmi in pianta stabile.
Che città trovi nel 1993? Si iniziano già ad intravedere cambiamenti a distanza di quattro anni dalla caduta del muro?
Assolutamente sì, la città era un cantiere. I lavori di costruzione sono iniziati ad inizio anni Novanta e le gru erano ovunque. Postdamer Platz, ad esempio, era qualcosa di inimmaginabile per chi l’aveva vista fino a due anni prima.
Si percepiva che Berlino stava cambiando, ma a Mitte e Prenzlauer Berg c’erano ancora tante situazioni alternative molto belle, che purtroppo sono quasi tutte scomparse alla fine degli anni Novanta, tramite sgomberi e indennizzi.
Ci sono, però, anche esempi di occupanti che si sono comprati i palazzi dove risiedevano all’epoca, chiedendo mutui in banca.
Riassumendo, sì, era evidente che Berlino stava iniziando a omologarsi a qualsiasi altra capitale europea.
La tua attività di promoter e dj inizia in questi anni o avevi già messo le basi prima?
Come dj avevo iniziato a New York, quasi per caso. Nel Lower East Side c’era un’altissima percentuale di portoricani e afro-americani e sono stato catapultato nella cultura hip-hop della East Coast di inizio anni Novanta. La musica era ovunque ed era impossibile non esserne influenzati e, inoltre, nel nostro giro più sperimentale c’erano mille contaminazioni tra dj e musicisti. Così ho cominciato a interessarmi alla scena hip-hop locale, comprando una marea di dischi, forse troppi (ride).
Quando sono tornato in Europa ho cominciato a fare quindi dei set di questo genere, miscelandoli poi con le sonorità trip-hop e acid-jazz che stavano nascendo nel Regno Unito.
A Berlino facevo diverse serate a Est, ma soprattutto ero resident in questo posto che si chiamava Eimer, il punto di riferimento della nascente scena clubbing. Il palazzo esiste ancora, sulla Rosenthaler Strasse. I ragazzi che occupavano lo spazio avevano deciso di togliere il pavimento del primo piano e lasciare solo il palco, quindi il pubblico per vedere gli artisti doveva scendere in cantina e guardarli dal basso verso l’alto. Un posto fondamentale, davvero. Pensa che uno dei gestori dell’epoca, Ben De Biel, è stato poi il fondatore del leggendario club Maria Am Ostbahnhof e oggi è un affermato fotografo a livello mondiale.
Da lì alla nascita del tuo storico negozio di dischi Piatto Forte come ci arrivi?
Insieme ad alcuni musicisti e dj abbiamo fondato un progetto editoriale, una rivista musicale che finanziavamo facendo party.
Dopo un po’ siamo rimasti in due e abbiamo deciso di trasformare tutto in un’etichetta discografica, la Duplikat Records. Io arrivavo dal punk, mentre questo ragazzo slovacco, Marek, che aveva studiato medicina a Praga, aveva altri gusti, più vicini all’elettronica. Così la label aveva un gusto più eclettico. Abbiamo stampato circa una decina di dischi, le nostre band suonavano spesso al Kaffee Burger, uno dei club di riferimento di quegli anni.
Ma come talvolta succede le spese erano maggiori degli introiti e abbiamo dovuto smettere. Poi, quasi per caso, una ragazza che gestiva la galleria fotografica Tristesse, sulla Schlesisches Strasse, mi chiese se volessi collaborare.
In quegli anni, quella parte di Kreuzberg era una zona non ancora così in auge e stava per essere riqualificata, non era certo quella di adesso. Il Senato incentivava ad aprire progetti di imprenditoria giovanile, pagando metà dell’affitto per alcuni anni.
Io e un mio amico tedesco, Chris Dietermann, iniziammo a gestire metà del locale vendendo vinili e decidemmo di chiamarlo Piatto Forte.
Volevamo far diventare quel luogo un punto di riferimento per la comunità di musicisti locali, dare possibilità di esibirsi, conoscersi e scambiarsi informazioni. Inoltre, la Schlesisches Strasse divenne col tempo il place to be, con una valanga di ragazzi e ragazze a fare avanti e indietro tra Club Der Visionare e Watergate.
Direi che alla fine ce l’avete fatta, conosco diversi musicisti che si sono conosciuti proprio al Piatto Forte.
Assolutamente sì, l’atmosfera che si è creata col tempo era proprio quella che volevamo. Per dieci anni, fino al 2014, ho gestito questo spazio, un ibrido tra un negozio di dischi e un locale, togliendomi davvero parecchie soddisfazioni. Il concetto del negozio andava oltre l’aspetto commerciale.
Alla fine, però, siamo stati anche noi vittime del processo di gentrificazione. Scaduto il contratto ci hanno chiesto di pagare il triplo di quello che era il canone di affitto fino a quel momento. Ovviamente per noi era una follia. Dopo dieci anni in cui metti tutto te stesso in un’attività e devi chiudere per una scelta non tua, ti assicuro che è una bella botta.
Il proprietario dello stabile era una società chiamata Valore, con sede in Lussemburgo, ti lascio immaginare quanto margine di trattativa abbiamo avuto. E poi, oltre il danno la beffa, il locale è rimasto vuoto per tantissimi anni, anzi forse lo è ancora.
Hai provato a riaprire di fronte al Gorlitzer Park, ma non funzionò.
Esatto, non era il luogo adatto. Era un co-working e io avevo uno spazio al primo piano, ma non avevo visibilità in strada ed era impossibile ricreare l’atmosfera del Piatto Forte. Così dopo sei mesi ho deciso di lasciare perdere e metterci una pietra sopra. Ho continuato a vendere dischi on-line, a organizzare eventi e fare il dj. Era giusto chiudere quell’esperienza.
Se dovessi scegliere tre aggettivi per descrivere Berlino e tre per definire il tuo rapporto con l’Italia, quali useresti?
Per Berlino userei, con ironia, un’espressione molto tedesca: praktisch, quadratisch, gut, ovvero concreta, quadrata, buona. Penso che renda il concetto. Dopo tanti anni che vivo qui, a volte, non è facile trovare gli stimoli, ma comunque è la mia base e mi ci trovo ancora molto bene.
Per quanto riguarda il mio rapporto con l’Italia direi: dinamico, perchè quando sono lì mi piace girare molto, ma anche triste e rassegnato e ora ti spiego il motivo: negli ultimi anni, per questioni personali, sono dovuto tornare abbastanza frequentemente a Torino e, ogni tanto, come capita a tutti noi expat, viene normale riflettere sulla possibilità di tornare un giorno a vivere stabilmente in Italia. Però poi quando sei lì ti scontri con una mentalità che ti porta a pensare che se vivessi in Italia potresti litigare ogni giorno con qualcuno. E’ un paese fermo, forse serve un’altra generazione per cambiare le cose, ma ci tengo a sottolineare che ho grandissimo rispetto di tutte le persone che in Italia provano a fare qualcosa.
E’ curioso, però, che dopo praticamente trent’anni che vivo qui, ancora sento ogni tanto il richiamo che mi fa pensare di poter tornare a vivere in Italia un giorno.
E’ una questione di scelte di vita, alla fine. Ho mantenuto in questi anni un rapporto molto forte con tante persone e ci torno abbastanza spesso, mi sono creato un network di lavoro tra Berlino, l’Italia e Barcellona.
Quando mi fermo un mese in Italia ci sto bene, perché ho la consapevolezza di poter ripartire, riuscendo a non impazzire per alcune cose che in pianta stabile mi farebbero arrabbiare molto. Un esempio stupido è l’attraversamento delle strisce pedonali, a Berlino la gente si ferma dieci metri prima, in Italia ti stendono. Sono piccolezze, che però mi fanno capire quanto ormai alcune cose sono insite dentro di me e farei fatica a cambiarle.
In realtà nell’ultimo anno mi sono dovuto confrontare con tutta una serie di esasperanti questioni burocratiche tedesche che mi hanno portato a pensare che tutto il mondo è Paese. Mi ritengo fortunato a essere flessibile, poter viaggiare spesso e quindi compensare le mancanze di un posto tornando di frequente. E’ il mio punto di equilibrio.
Cosa hai visto cambiare di più, nel bene e nel male, in questi tuoi trent’anni abbondanti a Berlino?
Nel bene: è diventata sicuramente una città più europea. Grazie alle low-cost la città si è aperta all’esterno ed è diventato molto più facile spostarsi. Quando sono venuto io per la prima volta, l’unico modo era il treno, che era costoso, quindi per pochi.
Il rovescio della medaglia è la gentrificazione e la perdita di spazi dove si può sperimentare. Negli anni Ottanta c’era la consapevolezza che venire a Berlino significava confrontarsi con la cultura alternativa, con gente particolare: pensa che molti artisti, prendendo la residenza a Berlino, potevano evitare il servizio militare obbligatorio, quindi c’era veramente un mix incredibile di persone.
Ora c’è un aspetto più consumistico, alcuni expat delle nuove generazioni vengono perché attratti dal clubbing più commerciale, evitando di preoccuparsi della storia di questa città, di chi ha reso possibile, con le proprie lotte, la libertà che c’è oggi.
Non bisogna però dimenticarsi che Berlino è la capitale della Germania e visto la potenza economica che è diventata oggi, non ci si poteva aspettare che la città rimanesse immutata. I cambiamenti ci stanno, però purtroppo sono legati al vile denaro e questo è un peccato, perché si è persa una parte preziosa dell’anima della città.
Tutte le foto di Michele Barox sono di © Cesare Zomparelli per Noi, Berlino