«Berlino ieri e oggi: io, ex batterista dei Negazione, nel 1984 ho deciso di vivere qui. E ne sono ancora felice»
A tu per tu con Michele D’Alessio, punto di riferimento italiano per chiunque ami punk e italo-disco a Berlino da più di 25 anni
«Quando per la prima volta sono arrivato a Berlino, nel 1984, mi si è aperto un mondo. La città all’epoca era conosciuta a livello mondiale per essere un baluardo della scena alternativa, soprattutto le zone di Kreuzberg e Schöneberg. C’erano case occupate, concerti sette giorni su sette e gente colorata. Il tuo essere con i capelli un po’ strambi e colorati e i pantaloni stracciati, qui era la normalità. Non ti sentivi come la mosca bianca». Il sorriso di Michele D’Alessio, in arte Barox, è un’immagine ricorrente di qualsiasi evento musicale italiano, e non solo, abbia vita nella capitale tedesca. Lo è da più di 30, da quando decise di trasferirsi nella capitale tedesca per proseguire la sua carriera da musicista e, gradualmente, dare vita anche a quella di dj e organizzatore di eventi. Lo incontriamo nella nostra sede un pomeriggio di un afoso pomeriggio d’agosto, una di quelle giornate che quando lui si trasferì in Germania era raro vivere e che ora, purtroppo, avvengono in maniera continuata anche per due settimane. «Al freddo sono più abituato. Sono nato a Torino nel 1965, in una città che all’epoca viveva all’ombra della Fiat, non c’era nient’altro. In quegli anni suonare in una band rappresentava la possibilità di uscire da una città grigia e apatica. Torino, Berlino, New York e poi ancora Berlino, dal 1993 ad oggi».
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Come un torinese si è trovato a Berlino a inizio anni ’80
«Il mio rapporto con Berlino nasce grazie ai Negazione, la storica band di cui fui il batterista. L’adolescenza a Torino era stata quella della maggior parte dei ragazzi della mia generazione. Si giocava in strada senza problemi. Poi verso i 18 anni, avevo iniziato a sentire il bisogno di qualcosa di più. Mi avvicinai al mondo del punk. Sia perché mi interessava musicalmente ma soprattutto perché era un mezzo per esprimere disaccordo ed essere ribelli. Anche se ho imparato a suonare da solo, sono “figlio d’arte” perché mio padre era batterista. Iniziai a suonare quasi per caso con i Contropotere e poi con i DDT, Distorsione di Torino. Eravamo pochi in quell’ambiente e c’era sempre carenza di batteristi. La storia con i Negazione è iniziata quando il loro primo batterista ha deciso di non suonare più. All’epoca ci si trovava nelle piazze e i pomeriggi si passavano nelle sale prove, ovvero nelle cantine. Con i Negazione suonavamo addirittura in una chiesa valdese. Abbastanza bizzarra come cosa. Nei centri dove organizzavamo i concerti, si creava uno strano connubio. Il primo pomeriggio degli anziani suonavano il valzer, mentre dopo c’eravamo noi ragazzetti scatenati che facevamo punk».
Il viaggio in Interrail e la scoperta di Berlino
«Nel 1984 con i Negazione decidemmo di fare un tour europeo unito ad Interrail estivo. Eravamo ancora tutti alle superiori. Io in realtà partii una settimana prima perché i Kina, un gruppo di cari amici, erano già a Berlino. Il piano era raggiungerli e poi proseguire per Bielefeld, dove avrei avuto il primo concerto dei Negazione. Partii da Torino a Berlino in autostop con un amico. È stata una sorta di odissea: ci impiegammo tre giorni, finché decisi di farmi l’ultima tratta in treno perché non ce la facevo più. Berlino mi mostrò che un’altra vita era possibile. Fui stordito da quel senso di libertà. Ci rimasi una settimana prima di proseguire per Bielefeld. Lì feci un concerto con il mio gruppo ed altre band, prima di tornare nuovamente a Berlino per un altro concerto».
La parentesi newyorkese tra hip hop ed elettronica
«Dall’84 iniziai a fare la spola tra Torino e Berlino. Poi tra ’87 e l’88 decisi di trasferirmi a Berlino più o meno stabilmente. In realtà non fu mai stata una scelta “consapevole”, furono le circostanze che in qualche modo a farmi fermare qui. Nell’89, quasi in contemporanea con la caduta del Muro, conobbi una ragazza di Amsterdam. Passammo un po’ di tempo insieme tra Amsterdam e Berlino, per poi decidere di trasferirci a New York nel ’91. Ad inizi anni ’90 New York aveva potenzialità per la sperimentazione nel campo musicale. Entrai in contatto con questi ragazzi che gestivano un teatro e abbiamo cominciato un progetto in cui io suonavo la batteria con i bidoni di metallo. Questo ragazzo, Tim Sweet, suonava le prime drum machine, e tramite lui mi avvicinai alla musica elettronica. Abitavamo in un quartiere portoricano, che equivale ad hip hop 24h su 24. Per suonare si utilizzava un sistema molto basico: due piatti, ghettoblaster e microfono. All’epoca i testi non erano legati come oggi a donne e far soldi, ma un modo per esprimere indignazione e malessere. In questo concetto di autogestione della musica, trovai una sorta di similitudine con il punk. Contemporaneamente iniziai a mettere musica con le cassette e mi sono avvicinato al mondo del dj».
Il ritorno a Berlino dopo la caduta del Muro e “Duplikat”
«New York durò qualche anno. Nel 1993 sentii di volere tornare in Europa e la scelta fu obbligata: Berlino. Rispetto agli anni ’80 la città stava cambiando volto. Se appena caduto il Muro la gente scappava da quartieri dell’est come Mitte e Prenzlauer Berg, ora aveva vita un contro esodo. Era lì che bisognava andare per cercare posti underground. Iniziai a mettere musica come dj, in primis hip hop passando poi per trip hop e easy jazz. Con altri amici diventammo una sorta di collettivo di ragazzi che organizzavano eventi. Sviluppammo “Duplikat”, una rivista cartacea monotematica, di cui abbiamo fatto uscire cinque puntate, ognuna delle quali presentava un tema differente. Ci autofinanziavamo con eventi, mai con pubblicità. Per diverse questioni alla fine rimanemmo io e Marek, un ragazzo slovacco. Insieme decidemmo di trasformare quel concetto editoriale in un’etichetta indipendente mantenendo il nome “Duplikat”. Curavamo varie produzioni e, considerando che avevamo gusti musicali un po’ diversi, eravamo davvero a 360 gradi. ».
La storia di “Piatto Forte”
«Qualche anno dopo, nel 2003, ci proposero di occuparmi di una galleria e farla diventare anche negozio di dischi. Si trovava sulla Schlesische Straβe, a Kreuzberg, in una zona in cui non c’era assolutamente niente. Mi piaceva l’idea di avere uno spazio fisico in cui si potesse vendere musica, ma che non si limitasse solo al semplice aspetto commerciale. Volevo che diventasse un punto di riferimento per i musicisti. Il progetto, nato con Chris Dietermann, era una sorta di ibrido: di giorno negozio, di notte si trasformava in un piccolo bar con presentazione di libri e dischi, performance, concerti, feste. Siamo diventati un culto. Oggi magari è pieno di posti così ma il nostro era uno degli “originali”. Purtroppo Marek per questioni personali andò nei Paesi Baschi con moglie e figli. Inoltre siamo stati vittime della gentrificazione e dopo dieci anni, nel 2015, abbiamo dovuto chiudere. Ci è scaduto il contratto e la condizione per il rinnovo era di pagare tre volte tanto l’affitto. C’è stato il tentativo di riaprire in una location diversa, ma non è andato a buon fine. Ho preferito chiudere piuttosto che perdere l’identità».
La terza vita di Michele D’Alessio, dj Barox e l’italo-disco
«Quando ero immerso nel mondo del punk tutto ciò che aveva a che fare con la disco mi faceva abbastanza cagare, ma tramite le mie esperienze in giro ho iniziato a concepire la musica a 360 gradi. Lentamente mi sono incuriosito sulle produzioni meno conosciute, che però avevano un perché. Mi sono appassionato ai primi campionamenti con sintetizzatori con quelle vocine particolari. Ci tengo a precisare che nei miei set sono abbastanza eclettico: è vero che metto italo disco ma posso fare la serata punk senza problemi. Spesso mi capita di fare questo mix che parte da italo disco e arriva anche a cose elettroniche più datate. A me la techno, ti dirò, mi fa cagare (ride). Al Berghain non ci vado per principio. Due anni fa ho messo musica al Berghain Kantine, un’ala del Berghain dove organizzano un sacco di concerti. C’erano gli Itaca, un gruppo tedesco rinomato che fa italo-disco cantando in italiano. Presentavano il loro primo disco e mi era stato chiesto di fare l’aftershow. Stavamo aspettando che questa amica prendesse la bicicletta, ridevamo per l’interminabile fila e per il criterio di selezione inesistente. Ad un certo punto ci sono venuti incontro questi energumeni, dicendoci che dovevamo andarcene perché era un posto privato. Non eravamo nemmeno vicini all’entrata. Ho pensato, sai cos’è, perché devo venire in un posto così? Quel posto aveva un senso quando si chiamava Ostgut, non ora. Hanno creato un culto rispetto a qualcosa che ormai è talmente mainstream da essere presente in tutte le guide della città».
Vivere a Berlino, tra ieri e oggi
«Quando sono arrivato a Berlino la prima volta, c’era una bassissima percentuale di giovani e lo Stato faceva di tutto per incentivarli a venire a vivere qui. La vita qui costava poco perché non c’era economia. Dopodiché è diventata capitale della Germania, fattore fondamentale nel determinare la sua omologazione a qualsiasi altra capitale europea. Ora i prezzi stanno aumentando, è una città che sta cambiando velocemente, che però continua a mantenere un’economia medio-bassa, non paragonabile a quella di città come Francoforte o Monaco. La cosa negativa è che la forbice tra chi sta meglio e tra chi sta peggio sta diventando sempre più ampia. Comunque è una città che continua ad avere possibilità. Qui riesci sempre a trovare delle nicchie. Viaggiando parecchio il paragone lo posso fare. Lascia stare i cliché, il nord europa, i tedeschi, il freddo, il sole che manca, la cucina, questo e quest’altro… nonostante sia cambiata, è una città nella quale, con pochi soldi, si può mantenere uno standard di vita medio alto».
Uno sguardo da emigrato sull’Italia e la vita oggi a Berlino
«Sono fisso qui da 31 anni, ma non sono andato via dall’Italia per necessità. È la curiosità che mi ha spinto a lasciare il paese. Nel momento in cui ti crei una vita all’estero, ti abitui ad una serie di cose, si può dire che “ti abitui male”. Per una serie di motivi torno regolarmente in Italia e noto subito delle piccolezze. Penso che se tornassi lì, litigherei tutti i giorni (ride). Al momento non mi si pone il problema di tornare in Italia. Mai dire mai, può essere che magari un domani decida di tornarci. Comunque capisco chi va via per necessità, ma rispetto e apprezzo molto anche chi rimane lì per creare delle basi e delle alternative, sia dal punto di vista lavorativo che politico». «Ad oggi continuo a fare principalmente le mie serate. Ogni tanto produco qualcosa. Ad esempio, un anno fa mi è capitato di produrre la ristampa di una delle pietre miliari dei Negazione “Tutti Pazzi”. Il 13 settembre faremo il diciannovesimo anniversario del Piatto Forte Sommer Fest all’House der Kulturen der Welt (qui l’evento). Ci sarà tutto il giro che aveva Piatto Forte ed è come se fosse la sintesi di quella che è stata la mia storia degli ultimi quindici anni».
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