“Berlino? Ja, danke!”

Dicono sia più facile andarsene. Mettere un punto a una sequela di parole fitte fitte e spesso esitanti, vergate sulle pagine consunte di un taccuino che profuma di stanze vissute, cartoline sbiadite, trionfi casuali, occasioni mancate e generazioni di gatti che hanno scandito il ritmo in quattro quarti di una sinfonia segreta e familiare. Di una vita passata e di un ciclo compiuto, ciò nonostante sempre tanto vicino e presente, che puoi ancora toccare, sentire e annusare. Io non ho mai creduto a chi – con poca clemenza – tende invariabilmente a vedere nelle scelte altrui la soluzione più semplice, la scappatoia conveniente, lo spostamento tattico che apre la strada; ogni variazione sul tema porta con sé un equilibrio incomprensibile di dolce ed amaro, ogni partenza presuppone un addio e sguardi nuovi da incrociare, e questo mondo confuso sarebbe un posto migliore se solo restituissimo coraggio e dignità ad ogni singola decisione dettata dalla volontà di migliorare. Perché partire, ve l’assicuro, è difficile almeno quanto restare.

Chissà se Berlino si ricorderà del nostro passaggio, di una valigia dischiusa sull’incanto e del nostro bisbigliare incerto?

Il mosaico perfetto non esiste, è la grande menzogna che ci hanno raccontato per darci un’illusione di armonia. E quando lasci il tuo paese per andare a vivere da un’altra parte, ti accorgi come mai prima di allora che questa presunta armonia in realtà non è altro che un magnifico disordine di tasselli sistemati a caso, i quali puntualmente si incastrano senza premeditazione e danno vita ad un disegno che tutto sommato finisce per piacerti. Non ha senso rimuginare sulla logica di ciascun incastro, perché è il quadro generale quello che conta più di ogni altra cosa. Ma soprattutto perché sono proprio le elucubrazioni a turbare quell’equilibrio sottile che ti permette di affrontare ogni giorno una distanza fisica di duemila chilometri dalla tua famiglia e dalle persone che ami, lasciando inevitabilmente strascichi di rimpianto e nostalgia.

Chi mi conosce bene sa che, da sempre, sono una persona che esagera con le formule di cortesia, con i “grazie”, i “prego” e gli “scusa”, rimproverandomi il più delle volte per quest’eccesso di zelo gentile, che alla lunga può diventare stucchevole e fastidioso. Eppure non posso farci niente, è un eccesso inculcato, un automatismo di educazione che mi pare dovuto nei confronti di chiunque si rivolga a me con garbo e affabilità. Ecco perché qui a Berlino mi trovo in una situazione di profondo imbarazzo, rendendomi conto che – per grosse lacune linguistiche e in barba agli sforzi profusi nello studio di un idioma che ancora non mi appartiene – anche nelle piccole cose non riesco mai ad essere gentile quanto vorrei. Soprattutto da quando ho delimitato consapevolmente un mio enorme e grottesco limite: se pure un giorno acquisissi una padronanza superlativa della lingua e prendessi una laurea in astrofisica a Rostock, con discussione della tesi interamente in tedesco, magna cum laude e bacio accademico, sono certa che nell’entusiasmo del momento risponderei istintivamente al presidente di commissione: “Ja, danke!”. Schiaffeggiandomi a doppia mandata una frazione di secondo dopo per un errore che commetto qui fin dal primo giorno e non so se riuscirò mai a correggere. “Ja, bitte”, così come “Yes please”, non entra, non si sedimenta, suona contorto e artificioso. Suona poco italiano, o poco vicino a un concetto di gentilezza slegato dalla lingua e più avvinto alla consuetudine, alle radici, all’intesa umana che difficilmente sarò in grado di instaurare altrove, se non nel mio paese. La comunicazione gestuale conta, ma solo laddove il gesto è un corollario alle parole giuste, altrimenti diventa un siparietto alla noio volevan volevon savuar, con la piccola differenza che il protagonista della gag sei tu e non ridi.

Ed è in quei momenti che rimuginare sui singoli tasselli del mosaico imperfetto ti paralizza e non ti fa andare avanti, per una manciata di attimi interminabili, costringendoti tuo malgrado ad ammettere che hai nostalgia dell’immediatezza e della spontaneità del non dover formulare prima di parlare, del poterti lanciare in una battuta sapendo esattamente qual è l’ilarità che ne scaturirà, del trovare senza sforzo la combinazione di lettere più efficace per esprimere la tua gratitudine a qualcuno. Costringendoti tuo malgrado ad ammettere che l’Italia, nonostante tutto, ti manca tantissimo.
Poi però lo sguardo si allarga, la veduta d’insieme si fa più nitida e ricordi di essere a Berlino. La città che hai scelto per vivere, non quella che ti è toccata in sorte per nascere o quella in cui hai dovuto stabilirti per esigenze di studio o questioni più prosaiche. Un luogo che ti permette di essere te stesso in tutto e per tutto, di realizzarti, magari non di arricchirti, ma di riempire di serenità preziosa quella valigia che hai lasciato volutamente dischiusa. E che si fa amare con la stessa passione del meraviglioso incontro fortuito di una notte, quello che un giorno non potrai fare a meno di rimpiangere se non lo vivi tutto d’un fiato e senza riserve.

Chissà se Berlino si ricorderà del nostro passaggio, di parole sempre meno incerte e dell’incanto che qui abbiamo imparato a svelare.
Mi sembra quasi di vederla mentre sorride di me e dei miei “Ja, danke”, col fare indulgente di chi ha capito che dietro l’errore maldestro si cela una dichiarazione d’amore profondo che non dimentica le sue radici.

Foto © Sascha Kohlmann CC BY-SA 2.0

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