Scopri davvero l’anima di Berlino quando viaggi sui suoi mezzi pubblici
Da Roma a Berlino, una vita sui mezzi pubblici
E’ mattina. La luce che filtra dalle finestre (ma perché in Germania non esistono le serrande?) me l’ha fatto capire già da un po’, ma con ostinazione riesco a guadagnare qualche altra ora di sonno, aspettando il primo – molto più spesso secondo – suono della sveglia.
Il primo caffè (quello rigorosamente italiano, segno di un’integrazione che ammette eccezioni) non mi sveglia del tutto; ma quando esco da casa e mi dirigo verso la stazione comincio ad essere ricettiva rispetto a ciò che mi circonda. Per me infatti la giornata non inizia quando arrivo all’università tra ricerche, studi e lezioni, ma appena metto piede sulla S-bhan e poi sulla U-bahn. Sono loro il mio nuovo paradiso antropologico.
I 4 anni vissuti a Roma prima di arrivare a Berlino sono stati sufficienti per farmi capire quanto i mezzi pubblici siano identificativi di una città e di uno stato di cose che può rivelarsi ora ricco di contraddizioni, ora toccato da una generale armonia.
Le contraddizioni solcano Roma quando penso a quanto la bellezza che riempie gli occhi di turisti e cittadini vada a sporcarsi sotterraneamente nelle sue due linee di metro. Quella romana è una giungla metropolitana, soffocante e insidiosa. Lo stridore che provavo quando, abbandonata l’instancabile vista del Colosseo, mi dirigevo con una massa di persone a prendere dei treni sempre super-affollati mi lasciava ogni volta stordita.
Le regole basilari di una pacifica e sana convivenza non sembravano valere. Lo spazio vitale concessomi per respirare e muovermi era spesso calcolato al centimetro, mentre la testa era costantemente riempita dei racconti che ognuno decideva gentilmente di regalarmi: la nuova cotta della ragazzina 15enne, la descrizione ben dettagliata del pranzo degli impiegati, i racconti dell’ante-guerra dei più anziani, le universali lamentele per gomitate più o meno accidentali. Infine, due domande costanti: arriverò in tempo all’università? E ci arriverò ancora con borsa, cellulare e portafoglio?
Questo mi ha sempre fatto pensare che la regola fondante di una metropolitana fosse quella di non averne nessuna. Ed è da questo punto di vista che entrare in metro a Berlino mi ha fatto ricredere.
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Dopo aver trovato senza grandi lotte un posto a sedere, con instancabile spirito di osservazione mi guardo intorno. Non vedo nessuna figura emergere rispetto alle altre, nessuno che senta la sfrenata necessità di farsi notare, né in un abbigliamento eccessivamente ricercato né nel tentativo di comunicare a tutto il treno i dettagli più o meno insignificanti della sua vita. La musica rimane nelle orecchie di chi la ascolta, le chiacchiere anche.
Ma è vero? Se guardo con più attenzione, la ragazza di fronte a me ha i capelli non si sa se rosa o verdi, il signore seduto accanto si dimena al suono di musica che immagino psichedelica, la signora in fondo lancia sommessamente maledizioni a non si sa chi. Ma in superficie tutto rimane intatto e inattaccabile e nessuno sembra intenzionato a disturbare i suoi compagni di viaggio.
La regola principale qui sembra farsi i fatti propri. Ognuno immerso nelle proprie letture o nei propri pensieri, sguardo fisso al cellulare o al finestrino. E non posso nascondere che a volte questo mancato contatto mi disturbi, non trovare quel calore umano che Roma, nel bene e nel male, mi lasciava. Ma c’è la tranquillità, il sentirsi parte di qualcosa di temporaneo e delicato: uno stand-by alla propria fretta, che invece di riempirti la testa di suoni che non ti appartengono, ti permette di rimanere in sintonia con i tuoi pensieri.
L’identità di una città la si può respirare in tanti modi e in questo senso Berlino non si stanca mai di fartela sentire sulla pelle. Si annida ovunque e io vado a cercarla o a farmene travolgere anche in questi luoghi di mezzo, dove non posso che rimanere stupita nello scoprire la possibilità di una convivenza pacifica e armonica tra la vita che scorre fuori e quella che le si muove dentro.
”Nächste Station: Stadtmitte”. E’ la mia. L’osservazione è finita. Ci avviciniamo alla porta, chi ci arriva prima è implicitamente invitato ad aprirla quando il treno è ancora in moto: ora la fretta chiama, bisogna tornare a correre. “Aussteigen bitte”. E si ricomincia.
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Immagine di copertina: Get on moving ©Matthias Ripp, CC BY-SA 2.0