Reportage da Turmstrasse 21, centro accoglienza dei richiedenti asilo a Berlino
Alle 10 del mattino nessuno dorme, probabilmente già da ore. Molti sono svegli dall’alba, altri probabilmente all’alba hanno visto il campo per la prima volta, capendo di essere nel posto giusto. Raggiungendo la meta alla fine di un viaggio lungo, rischioso e difficile.
Ci lasciamo alle spalle la realtà. Siamo a Berlino, quartiere di Moabit. Tutto scorre tranquillo, ordinario. Usciamo dalla fermata della metro di Turmstrasse in modo anonimo, il filo quotidiano che spinge l’equilibrio della città non si incrina. Finché non svoltiamo a sinistra, spingendoci oltre la soglia del numero civico 21. E lì non possiamo far altro che restare in silenzio. Imbarazzato silenzio. Loro, i migranti, i rifugiati, i profughi di terre bombardate sono davanti a noi, radunati nel campo del LaGeSo (Landesamt fur Gesundheit und Soziales) di Moabit. Nessuna indicazione, non ce n’è bisogno: loro, i migranti, i rifugiati, i profughi di terre bombardate sono appoggiati alle facciate degli edifici che danno sulla strada. Hanno sguardi segnati dall’attesa, dall’incertezza. Dalla stanchezza, da una fragilità che però è solo apparente.
La situazione ha un’aura di sospensione: ci sono centinaia di uomini in fila davanti al centro di accoglienza per la richiesta di asilo che attendono da ora e per ore continueranno ad attendere. Qualcuno cerca di passare davanti. C’è chi grida, chi litiga. La sicurezza fa il possibile per arginare possibili scontri. L’aria che si respira è precaria: siamo davanti a uno scenario inedito, quello di una Germania che ha sospeso gli accordi di Dublino e ha scelto di accogliere tutti i richiedenti asilo proveniente dalla Siria. Una mossa politica storica, che cerca di sovrapporsi allo stereotipo di un paese intollerante e razzista e che oggi cerca di lanciare un nuovo messaggio a tutta l’Europa.
Riusciamo ad avvicinare una famiglia siriana. Una donna, due uomini e tre bambini piccoli. Ci avviciniamo con discrezione, presentandoci e sorridendo. Quando diciamo di essere giornalisti, lei scrolla le spalle e sospira non convinta. Promettiamo di non fare foto e cerchiamo di spiegare il nostro intento. Lei scambia qualche battuta in arabo con gli uomini affianco e poi acconsente a raccontarci il loro viaggio. Parla inglese quanto basta per capirci.
Arrivano dalla Siria. Radja, suo fratello e suo marito con i tre bambini di 5,6 e 12 anni. Sono partiti dalla loro terra per raggiungere la Turchia, sperando di riuscire a superare il confine e poi dalle coste turche imbarcarsi per la Grecia. Ci raccontano che in Siria hanno perso 9 parenti, rimasti uccisi sotto le bombe.
Al confine non è facile: molti siriani vengono respinti, alcuni trattenuti, imprigionati e picchiati, per poi essere rimandati indietro. Chi riesce a superare il confine con la Turchia, arriva solitamente ad Izmir.
Radja e la sua famiglia, dopo aver attraversato il deserto nello stesso furgone per quattro giorni, senza cibo, acqua appena necessaria per sopravvivere, raggiungono la Turchia. Per 1200 euro a testa salgono su una barca in direzione Grecia. Samos, Kios e Atene sono le mete più toccate.
La Grecia non li trattiene, sa che i migranti sono di passaggio. Puntano a Nord, il loro cammino è appena a un terzo. Così a piedi iniziano il loro viaggio: prima tappa Macedonia, dove ci parlano di un’accoglienza più solidale. Lungo i binari, salendo verso Nord, arrivano in Serbia. Il clima che trovano è più rigido, eppure nessuno li ferma. Nessun controllo, nessun ostacolo. Così dalla Serbia arrivano in Ungheria. Al Sud del paese vengono fermati e iniziano a scontrarsi con la realtà di un estremismo nazionalistico che avanza.
Le autorità bloccano i rifugiati, impedendogli di salire su un treno che li porterebbe a Budapest, sebbene non sia l’Ungheria la loro ultima meta.
Vengono prelevati e portati in un campo che loro definiscono “prison-camp”.
Radja ci guarda senza scomporsi. Racconta il suo viaggio come una reporter, anche se il suo inglese non è perfetto, riesce a darci tutti i dettagli necessari a mettere assieme i pezzi della storia. E’ stanca, ma senza alcun segno di fragilità. Il suo sguardo è morbido e forte, avvolto dal velo color crema. La sua carnagione è chiara e i suoi occhi si appoggiano spesso, con una punta di preoccupazione, sui tre bimbi che le saltellano attorno.
Nel “prison-camp” ungherese li hanno lasciati senza acqua né cibo.
«Volevo un po’ d’acqua per i bambini, qualcosa per farli mangiare. Quando ho chiesto se fosse possibile averne un po’, mi hanno risposto che quello non era un problema loro. Siamo stati due giorni senza acqua né cibo. Poi ci hanno portato in prigione, per dodici ore. Ancora senza acqua e senza cibo. Eravamo stipati in una stanza piccolissima. Dopodiché ci hanno forzati a lasciare la nostra impronta digitale e ci hanno liberati».
Da lì, sono saliti su un treno che li ha portati a Budapest. Nella capitale ungherese, pagando 600 euro a testa un autista arabo, riescono a trovare un passaggio in auto per raggiungere la Germania: Budapest Berlino sono 16 ore di viaggio, poi al mattino fino a Turmstrasse 21. Nessuna fine è mai una fine: per Radja e la sua famiglia è appena l’inizio di un nuovo percorso.
Quando chiediamo cosa pensano dovrebbero fare le forze internazionali e soprattutto occidentali per aiutare il loro paese a uscire dalla guerra civile, rimangono confusi. Non sanno nemmeno loro a che soluzione guardare: troppe persone hanno “messo le mani” sulla Siria, provocando dinamiche e scontri dai quali è ora difficilissimo tornare indietro, dicono.
«Tornereste in Siria se la guerra dovesse finire?».
No.
(foto di Margherita Sgorbissa per Berlino C&P Magazine – Turmstrasse 21, Berlino)
Avviciniamo altri tre ragazzi, fra i 20 e i 28 anni. Siriani. Altre tre uomini sulla cinquantina, iracheni. Tutti qui in fila per la richiesta di asilo. I ragazzi siriani hanno già i documenti in una cartellina: il centro LaGeSo consegna loro un documento con lo stato di richiedente asilo e un Gutschein (buono) di 50€ per pernottare in una struttura (albergo o pensione) a Berlino.
Sono felici di essere in Germania: uno di loro faceva il parrucchiere in Siria, qui vorrebbe studiare le lingue straniere e poi chissà, trovare un buon lavoro e fermarsi nelle “Terre di Angela”.
Lasciamo il campo di Moabit mentre inizia la distribuzione dei vestiti. La polizia cerca di coordinare i lavori, con estrema difficoltà. La necessità di far fronte ai bisogni primari è impellente in ogni singolo nucleo. Si accalcano, cercano di prendere i “pezzi migliori”. A Berlino è ormai autunno, si inizia a percepire l’aria di un inverno rigido alle porte. La fine dell’estate non favorirà di certo la situazione: entro la fine dell’anno la Germania stima l’arrivo di circa 800mila richiedenti asilo. Ci sono molte donne, molti bambini e molti anziani costretti a rimanere accampati fuori dal centro di accoglienza o pernottare nelle tende in attesa che un membro della loro famiglia compili la richiesta.
Ce ne andiamo con una grande emozione addosso. Al di là del gran chiasso mediatico e virtuale a cui assistiamo quotidianamente sui social network, esistono gli occhi e la voce di persone in carne e ossa che proprio nella loro carne e nelle loro ossa portano addosso l’esperienza reale di un viaggio di più di 3000 km. Attraverso 8 nazioni, un deserto, un Mare. Nella maggior parte dei casi, arrivano a piedi. Solo per caso, di tanto in tanto, a bordo di mezzi clandestini, che speculano sulla loro fuga. A cavallo di confini più o meno flessibili, alcuni di questi ormai quasi dei veri e propri muri. Con il rischio di arrivare deperiti, in molti casi rischiando la vita. Lasciamo alle spalle il campo di Moabit e quell’equilibrio quotidiano che spinge avanti la nostra realtà è un po’ meno stabile di prima: tutte le persone che abbiamo incontrato, anche per poche ore, ci hanno permesso di toccare con mano una realtà che non diventa tale finché non la si ha davanti, occhi negli occhi con chi dalla guerra è scappato per davvero, il cui nome non è solo su un post su facebook, ma possiede un corpo vivente, con un respiro e con una pelle che ha su di sé il peso di un viaggio infinito.
Auguriamo loro buona fortuna per la loro seconda possibilità in Germania e auguriamo a noi stessi che l’ondata di solidarietà ed empatia a cui stiamo assistendo nelle ultime ore fra Germania e Austria sia solo il primo di altri nuovi passi verso un’Europa pronta a mostrarsi più attiva e concreta davanti a un’emergenza umanitaria che non può più lasciarci indifferenti.