Primark e la sindrome da shopping low-cost a Berlino
Prima o poi quel momento arriva per tutti, piomba fra capo e collo inclemente e coglie alla sprovvista. Quell’attimo profetico, greve di conseguenze e disturbi somatizzanti a lungo termine che striscia subdolo e poi ti annienta senza colpo ferire. Quel fatidico lasso di tempo di noia, in un piovoso pomeriggio berlinese di novembre, in cui fra il quinto muffin e la terza tazza di tè la tua amica la butta lì, con quel tono di finta noncuranza ma che in realtà presagisce sciagura: “Ti va di fare un giro veloce da Primark? Così, giusto per vedere com’è.“Ignorando l’assioma oggettivo e incontestabile che giro-veloce-Primark sia un trinomio assolutamente fantascientifico e non paga della mattinata di tre anni prima su Oxford Street, a Londra, in cui per comprare due paia di pantaloni hai sprecato quattro ore preziose che avresti potuto impiegare costruttivamente visitando la Tate Modern o rimpinzandoti di jacket potatoes, decidi malgrado tutto di accettare. Ed è in quel preciso istante che, con uno stoicismo che scoprirai di avere solo in seguito, hai scelto inconsapevolmente di trasformare un quieto pomeriggio autunnale in un esperimento antropologico le cui conseguenze saranno visibili sulla tua stabilità emotiva per parecchie settimane a venire.
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Nel tragitto in metropolitana, i primi ricordi confusi cominciano ad affiorare. La tua amica parla d’altro e tu accenni un sorriso forzato ma, come in uno stato precomatoso, nella mente si affastellano immagini sfocate di foulard a pois che volano da un corridoio all’altro, di grasse signore londinesi che si azzuffano per l’ultimo paio di ballerine dorate numero 39, di ragazzine in preda ad obnubilamento adolescenziale che ti guardano in cagnesco se provi un abito identico a quello scelto da loro, di strane entità in poliestere, fameliche, che prendono vita dagli espositori di camicie… A quel punto i ricordi cominciano a colorarsi di tinte fosche e surreali, e riscuotendoti dal dormiveglia allucinatorio ti dici che no, non può essere così anche a Berlino. La rinomata compostezza teutonica non avrà ceduto al delirio da shopping low-cost compulsivo. Le pronipoti di una generazione che ha patito le bombe ne avranno abbastanza di racconti dell’orrore, e non sarà certo per una pochette in similpelle che una popolazione provvista di senso pratico manderà quella proverbiale pragmaticità a farsi benedire. Suvvia, Silvia, la situazione sarà molto meno drammatica di come la immagini.
Rincuorata da illusioni fallaci ritrovi un minimo di equilibrio mentale e ti appresti ad affrontare una normalissima parentesi pomeridiana di compere, pregustando già il frivolo piacere nello scovare quella camicetta a fiori o quel tubino nero che sogni da mesi. Ma lo spettacolo che ti si presenta alla vista sulla banchina di Walther-Schreiber-Platz ti coglie del tutto impreparata e ti fa piombare nuovamente in uno stato di alterazione psicomotoria, annebbiando i sensi e confermando le tue più cupe previsioni. La stazione di quello che fino a due anni fa era un tranquillo e ridente sobborgo a sud-ovest di Berlino, popolato principalmente da arzilli over 65 rintanatisi a Steglitz dopo le fatiche di una vita intera o da famiglie desiderose di quiete, è diventata a occhio e croce una specie di bolgia dantesca in cui si assiepa un esercito semovente di sacchetti cartonati con il noto logo turchese in bella mostra: una milizia di donne di ogni età che si passano il testimone, ora dopo ora, treno dopo treno, per concedersi eroicamente un paio d’ore di frenesia commerciale e ingaggiare una lotta senza esclusione di colpi all’ultimo collant 40 denari. Uno sciame agguerrito di paladine indefesse dell’outfit che avrebbe fatto impallidire i più cruenti e sanguinari condottieri visigoti, e che ora tocca a te coraggiosamente affrontare. È già nel tentativo di scendere dal treno che devi cominciare a farti largo sgomitando, prevedendo imminente un attacco di panico e consapevole che per il resto del pomeriggio i tuoi avambracci avranno un gran bel da fare. Immemore di qualunque coordinata spazio-temporale o di un vago senso di dignità personale, decidi allora di farti risucchiare dall’orda impazzita e ti lasci trascinare verso la meta, rinunciando ad ogni tipo di difesa e arrendendoti al furore dello stuolo efferato e cicalante.
Lo Schloss-Straßen-Center in cui ha sede l’unico store Primark di Berlino (ma a breve ne aprirà un altro ad Alexanderplatz) è progettato ad arte come una vera e propria trappola di cristallo: dalla stazione della U9, tramite una porta a vetri simile in tutto e per tutto all’Oracolo del Sud di fantasiana memoria, si accede direttamente al centro commerciale, precludendosi ogni potenziale via di fuga dell’ultimo minuto. E una volta varcata quella fatidica soglia… lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate. Dopo poche decine di passi – inebriati da un olezzo di fritto, pizza al taglio turca e crêpes al mirtillo – vi ritroverete come per incanto sulle scale mobili, trasportati dalla spinta gravitazionale verso un irresistibile polo di attrazione magnetica. E finalmente eccola lì, la cattedrale dello shopping, l’astronave madre nel cosmo consumistico, il tempio dei cardigan a 12,99 euro: cinquemila metri quadrati spalmati su due piani, brulicanti di esponenti del gentil sesso di ogni età, nazionalità, forma fisica, velleità e aspirazione. Una selva multicolore e quasi abbacinante di capi d’abbigliamento, accessori, cosmetici, biancheria per la casa, profumi e piccoli oggetti d’arredo. Una fabbrica di sogni a breve termine, considerata la qualità degli articoli smerciati, ma che a suo modo esercita un fascino potente e terribile sulle deliziose dinamiche della psiche femminile, sempre pronta a raccogliere le sfide più ardue e ad uscirne vittoriosa.
A quel punto, ormai giunta all’ingresso nelle sembianze di un groviglio di nervi, senti i muscoli rilassarsi e tutti i timori svanire, forse per un processo di meditazione trascendentale che il tuo cervello ha attivato in automatico. Tutt’a un tratto la nebbia si dirada e sai che le possibili strategie da adottare per non soccombere al blob delirante sono essenzialmente due: arrenderti alla frenesia collettiva e gettarti fra gli espositori sottoscrivendo un’assicurazione sulla vita (e sui gomiti) oppure dimenticare la camicetta a fiori e limitarti a mettere nel cestino una banale t-shirt nera, basic, taglia 12, che non proverai nemmeno, osservando nel frattempo la coloratissima e variegata umanità che popola quella roccaforte mitologica, quasi inespugnabile. Spunti mentalmente la seconda opzione, guidata da un istinto da speleologo curioso, e cominci a guardarti intorno compiaciuta di te stessa, con uno sguardo nuovo e più leggero.
Vagando oziosamente per i corridoi, noti subito la prima creatura su cui posare gli occhi divertita: quindicenne, bellissima, magrissima e biondissima, che insieme alle amiche sta cercando la mîse perfetta per un venerdì sera di party sfrenati. Non la schiodi nemmeno con una gru dal reparto degli abiti rigorosamente smanicati (anche a gennaio, quando la temperatura esterna è di – 9°), dov’è impegnata a provare un vestitino dopo l’altro lì fra gli espositori, senza togliere i jeans, bypassando i camerini affollati, facendo la spola tra gli stand e lo specchio e gettando per terra impaziente gli indumenti che le amiche le sconsigliano con un cenno di disapprovazione. Poi c’è lei, la riconosci al volo perché ti ci identifichi immediatamente: sta cercando il capo di puro cotone in una distesa sconfortante di bluse in poliestere e maglie in acrilico. La vedi annaspare disperata fra etichette e taglie anglosassoni finché non avvista da lontano, quasi fosse un miraggio, l’unico espositore di magliette in cotone bio, sul quale si fionda come se non ci fosse né un oggi né un domani. Nemmeno lei passa inosservata al tuo occhio indagatore, la signora cinquantenne e distinta che si aggira furtiva tra gli stand di canotte adolescenziali; ne ha puntata da mezz’ora una aderentissima, con una stampa imbarazzante di gelati e cupcake. La osserva a lungo, se la gira e rigira fra le mani pensierosa e la getta nel cestello quasi in trance. Dieci minuti di considerazioni dopo, torna all’espositore e la rimette al suo posto con fare rassegnato… salvo poi riagguantarla, prima di dirigersi alla cassa, e cedere d’impulso a un capriccio che le costerà solo 6 euro, ma la farà sentire certamente trent’anni più giovane. E infine ci sono loro, i tuoi preferiti, quelli a cui va tutto il tuo rispetto e la tua compassionevole ammirazione: gli accompagnatori di fidanzate, di mamme, di sorelle. Non hanno ancora compreso e maledicono il vero motivo che li ha condotti lì – forse un battito di ciglia di troppo e un sorriso al momento giusto – ma leggi nei loro occhi la stanchezza e lo sconforto più disperanti. Si trascinano senza vigore fra i corridoi, stravolti, si accasciano inerti all’ingresso dei camerini, hanno imparato ad annuire meccanicamente e sono ormai allenati a pronunciare il commento giusto con il tempismo più straordinario, pur di abbreviare quel supplizio. E tu vorresti andare lì, far loro una carezza, abbracciarli uno per uno e rinfrancarli, sussurrando dolcemente che dopotutto non può durare per sempre, che fra poco saranno di nuovo al sicuro, nel mondo reale, in sella alla cara vecchia bicicletta o confortati da una weiß sacrosanta, che meritano più di ogni altro premio sia loro concesso.
La nazionalità, la lingua, il senso di appartenenza e i gusti personali non contano più. Si fondono e perdono d’importanza, quando il paesaggio si uniforma, stemperandosi, e il tessuto umano si rivela. È quasi confortante scoprire che, in ogni paese del mondo occidentale, un luogo simile desta le stesse reazioni, meccanismi equiparabili e tendenze analoghe. E lungi dall’addentrarsi in discorsi complicati accusando la società del consumo di aver omologato l’autenticità dei singoli appiattendo gli slanci originali, è molto più poetico pensare che la natura dell’uomo è quella che è. Incantevole, capricciosa, incompiuta nei suoi desideri e riconoscibile nei suoi sfoghi. Per scoprirlo non è certo necessaria una full immersion da incubo nel cerchio infernale del nice price berlinese, obietterete voi. E il mio consiglio da amica resta comunque quello di avventurarsi da Primark una volta ogni quattro mesi, solo se strettamente necessario, lasciando a casa accompagnatori recalcitranti, puntando a un obiettivo specifico e premuniti di parastinchi o bevande energizzanti.
Eppure, ogni qualvolta indosserete quella scialba t-shirt nera taglia 12 o l’abitino a pois deliziosamente sintetico che avete conquistato con le unghie e con i denti, saprete di aver scontato abbondantemente il vostro contrappasso e di aver concluso (forse) un discreto affare. Ma soprattutto benedirete la fortuna di aver colto, tra un parka verdolino e una borsa in finta pelle, l’ennesimo guizzo di una femminilità fragile e imperfetta che non ha bisogno di orpelli e infiocchettature per mostrarsi in tutta la sua bellezza. Che sia in gonna o fuseaux, sneakers o tacchi alti. A Berlino, come in qualunque altro angolo del mondo.
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