Un uomo silenzioso si aggira intorno al Burgermeister a Schlesisches Tor
24h a Schlesisches Tor di Ilaria Celestini
(dal Workshop di Scrittura Creativa “Scrittori Emigranti”, racconto scritto in occasione della Passeggiata Letteraria)
A qualsiasi ora del giorno ti fosse capitato di passare per Schlesisches Tor, Detlef era lì.
Erano ormai quasi due anni che vivevo nella piccola stanza mansardata sulla Schlesische Straβe e, fin dai primi giorni, notai questo gigante con un braccio solo che si aggirava per la stazione della metro con il suo cagnolino al guinzaglio. Il gigante e il nano. Di giorno solitamente potevi trovare Detlef sul binario (il binario in direzione di Uhland Str. perché, diceva, lui voleva guardare solo ad ovest) a ritrarre sul suo quaderno di schizzi le persone che scendevano dalla metro. Lui non disegnava, sosteneva, ma realizzava quelli che chiamava “atti unici”. Oppure lo potevi trovare a discutere di politica e di stato sociale con Bayar, il titolare della Bäckerei nell’atrio della stazione. Lo riuscivi a sentire fin dal binario perché quasi sempre la discussione sfociava in un litigio, con Detlef che imprecava contro Bayar e Bayar che alla fine insultava Jago, il cane di Detlef, il quale, più che curarsi delle politiche sociali, osservava rapito i panini al salame nella teca di vetro.
Di notte spesso, uscendo dalla stazione, trovavi Detlef seduto da Burgermeister che beveva birra e mangiava patatine. Lo vedevi da lontano, con la sua mole possente, ricurvo sul tavolino. Io gli sorridevo e alzavo la mano in segno di saluto. Lui annuiva con la testa. Nelle nottate turbolente rappresentava per me un segno rassicurante che mi diceva che il mondo in fondo non era poi così meschino. E se per qualche motivo non lo vedevo e non lo salutavo, perché ero troppo stanca, troppo disperata o semplicemente troppo ubriaca, il giorno successivo mi avrebbe urlato dall’altra parte del binario o della strada: «Ehi signorina, lo sai che ieri notte ero invisibile?».
Detlef viveva lì da 30 anni, da quando la città era ancora divisa in due. Aveva un appartamento nel palazzo all’angolo tra la Oberbaumstr. e la Köpenickerstr. Me lo aveva indicato un giorno dalla strada col suo ditone, mostrandomi la grande finestra del terzo piano che dava sull’incrocio. «Vedi, mi disse, anche quando sono a casa, e ci sto poco, io vedo tutto». Aveva sempre vissuto lì con sua mamma prima, e con sua moglie Matilda poi. Un tempo aveva un chiosco di bibite appena fuori dalla stazione di Schlesisches Tor. Matilda lavorava a Britz di notte e il giorno dormiva, si vedevano poco ma lei lo guardava sempre dalla finestra quando era a casa. E a lui bastava alzare lo sguardo per sapere che lei di giorno era lì. Dietro a quel vetro.
Quando mi aveva raccontato queste cose si era poi interrotto. Non avevo avuto il coraggio di chiedere dove fosse ora Matilda e come lui avesse perso il braccio. Detlef non rispondeva comunque alle domande. Era lui che ogni tanto, mentre passavi e lo salutavi, iniziava di getto a raccontare qualcosa. Io, se non ero in ritardo, mi fermavo e lo ascoltavo.
Nelle serate d’estate scendevo dalla metro e spesso allo Späti prendevo una birra per me ed una per lui. Lo cercavo con lo sguardo e, se lo trovavo, mi sedevo vicino a lui e a Jago, che mi scodinzolava intorno con gioia. Spesso ero troppo stanca per dire qualsiasi cosa a e forse anche lui era troppo stanco di qualcosa che io non conoscevo, e allora mi limitavo ad alzare la bottiglia e a dirgli “Prost”. Lui stava in silenzio, annuiva e poi mandava giù la birra fresca in pochi sorsi. C’era una genuinità nel suo sguardo, nella sua voce diretta ed imperiosa, che ti faceva sentire in qualche modo sempre al sicuro. Manca a tutti, Detlef.