5 situazioni di vita quotidiana che ti fanno odiare i berlinesi (che normalmente ami)
Premessa: amo Berlino e amo i berlinesi, nativi o acquisiti che siano.
Lo sono anche io del resto, Eppure certe volte i loro modi o il loro umorismo, cinico e senza compromessi (che ben si sposa con il loro dialetto), riesce a farmi passare dei brutti quarti d’ora.
1. Lezione di yoga
Sono le 19.45. Esco dal lavoro e corro. Il mio obiettivo della giornata è la lezione di yoga. Nessuna M21 da Frankfurter Allee, devo prendere la U-Bahn. Fra 15 minuti inizia. Sono già in ritardo. Maledico Berlino che è troppo grande. Già calcolo il tempo che impiegherò per cambiarmi. Cerco di rilassarmi. Penso a quando sarò stiracchiata sul tappetino. Il telefono squilla. Il mio capo. Dove sono i moduli di iscrizione? Armadio a destra. Riattacco. Sono le 19.50 e la S-Bahn per Ostkreuz arriverà in 7 minuti. Troppi. Mi arrendo. Accetto l’idea che arriverò in ritardo. La S-Bahn è piena. Mi prendo la solita spallata. La ressa da Feierabend. Tutti stanno uscendo dal lavoro.
Scendo a Ostkreuz. Corro giù, attraverso Sonntagstrasse. Poi Neuebanhofstrasse. Infinita. Semaforo. Infinito. Attraverso e continuo dritta. Ho il fiatone. Ma fra poco mi tufferò nella calma. Resisti! Arrivo al civico 20. Il grande portone rosso è aperto. C’è un ragazzo al telefono che me lo tiene socchiuso. Forse anche lui è in ritardo. No. Ok, entro. Suono il citofono. Compare un uomo in mutande. Parla strettissimo e «Cosa vuoi? Abbiamo già iniziato». Balbetto un «Lo so.» Sono sulla porta. «Sei livello avanzato?» Balbetto un «No». Lui trova un nano secondo. Dice «Ok, allora non è per te.» Mi sbatte la porta in faccia. A un palmo di naso le decorazioni rosse del legno intagliato. Le riesco a vedere una per una. Piega dopo piega. Rimango immobile. Fisso l’uscio. Mi raggelo. Mi ha chiuso davvero la porta in faccia? Sì. Me ne torno a casa.
2. Espresso al bar
Sabato pomeriggio. Piccolo caffè berlinese. Entro e faccio la fila. In silenzio. Mi godo la musica. L’ambiente raccolto. Il sapore di caffè. E’ il mio turno. Un cameriere simil-sudamericano mi fissa. Non dice nulla. La sua carnagione olivastra mi frega. Il mio pregiudizio spera nel calore latino. Che non arriva. Più berlinese di così non potrebbe rivelarsi.
Ordino un espresso. Chiedo se posso accomodarmi o devo aspettare la tazzina al banco. Mi fissa. Biascica «No vai». Freddura. Mi siedo. Prendo il mio quadernetto. Cerco una penna. Non la trovo. Mi alzo e sorrido. Contrasto di espressioni. «Posso rubarti una penna?». Mi fissa. Sempre lui. Senza mezza smorfia. Arriva la seconda freddura. «Rubare? Intendevi prestare, forse…»
3. Lezione d’italiano
In classe ci sono un greco, un tedesco e un francese. Non è una barzelletta. Ho trascorso due ore a preparare la lezione la domenica. Seguo la mia scaletta. Sono attenta alle domande. Mi tengo pronta a ogni loro dubbio. Una mano alzata. Il tedesco. Sto spiegando “mi piace” e “non mi piace”. C’è il pronome indiretto. Lo spiego.
«Quando dico “mi piace” o “non mi piace” posso indicare sia un oggetto che un’azione». Lo spiego ancora. «”Mi piace il gelato” o “mi piace cantare”». Il berlinese fa una domanda: «Dopo “mi piace” se uso un nome ci vuole sempre l’articolo?». Rispondo diretta: «Sì». Poi spiego. Ancora. Impiego circa cinque minuti e cinque modi alternativi. Mi fermo.
«Sì, tutto chiaro, ma non era quello che ho chiesto».
Silenzio. Mi raggelo. «Qual era la domanda?». Io.
«Dopo “mi piace” se uso un nome ci vuole sempre l’articolo?». Lui.
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4. Sulla S-Bahn
Sono le otto del mattino. La fermata di Frankfurter Allee è piena di gente. Arriva la U-Bahn. Aspettiamo che i passeggeri scendano. Poi la calca. Ci schiacciamo all’entrata del vagone. Nessuno sembra comprendere la dinamica dello spazio. Si bloccano tutti nello stesso metro quadro.
Non vola una mosca. La metro fantasma. Qualcuno compie un atto di ribellione «Konnt ihr bitte durchgehen?» (scorrere per favore…). La folla si sveglia. Nessuno cambia espressione, poi qualcuno si accorge che esiste un corridoio. Stiamo per partire. La situazione si è appena evoluta in meglio. La calca si diluisce lungo il vagone. Quando il tipico padre berlinese con passeggino 2.0 blocca tutto. Davanti la porta. Gli sforzi ribelli non sono serviti a niente. Ci schiacciamo ancora. Il trono è del passeggino. Immobile.
5. Ufficio pubblico
Risalgo dalla stazione della U-Bahn. Perdo circa 20 minuti. Non trovo l’edificio. Ho già chiesto informazioni a tre persone. Tre indicazioni diverse. (Tre sguardi infastiditi). Arrivo. Sbaglio ingresso. L’impiegata mi vede e urla «HALLO!». Tachicardia. Non mi dà indicazioni su dove andare. Improvviso col terrore di sentire ancora il suo rimprovero. Trovo l’ufficio. Biascico. L’impiegata alla scrivania non mi guarda in faccia. Continua a scrivere al computer. «Scusi, avrei bisogno di…». Alza la mando e indica un cartello. Non mi degna di una parola. Efficienza tedesca. Economia di voce. Decifro le righe. Non effettuano il servizio che cerco. Provo a insistere. «Hai letto il cartello?». «Sì, ma…». «Ha letto il cartello?». Mi arrendo.
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Immagine di copertina © Gorka Montiel CC BY SA 2.0
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