I 40.000 cm² di Claudia Catarzi a Berlino, quando nel ballo i confini sono libertà

di Jonathan Freschi

Berlino, Studio A del Radialsystem V, domenica 20 dicembre. La sala è completamente avvolta da un grande tappeto da danza nero e racchiusa da delle tende che coprono, non completamente, le vetrate ai lati, da cui si intravede un’incantevole vista della città. Sul palco è allestito un pannello di legno decentrato grande circa 2 metri quadrati. L’illuminazione è ridotta al minimo, concentrata senza alcuna sorpresa sull’oggetto inscenato. Una donna, la ballerina, entra in scena con dei vestiti larghi e morbidi, un costume neutro se non fosse per dei rombi disegnati che solo dopo, quando inizierà a muoversi e dare vita alla coreografia, creeranno un’interessante effetto visivo composto da spirali. Nel frattempo però è importante definire dove avrà vita il tutto, ovvero su quel pannello di 40.000 centimetri quadrati di cui abbiamo accennato prima. È lì che avrà vita lo spettacolo. Il silenzio viene rotto da suoni di sottofondo. Si aggiungono i passi. I primi movimenti di gambe, braccia, testa. È iniziato 40.000 cm² di e con Claudia Catarzi, già vincitrice del premio della giuria e del pubblico Appunti coreografici/DNA 2013 con il suo spettacolo Sul punto e attualmente impegnata anche con la compagnia Sasha Waltz & guests.

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Lo spazio limitato come espediente per indagare il corpo e i suoi movimenti. Il pannello risulta costrizione alla quale la performer si sottopone pere mettere in evidenza la sostanza dei contenitori, le possibilità di indagine che si pongono in un rapporto paritario, quasi senza intermediazioni, tra la danzatrice e l’oggetto in questione, tra la danzatrice e l’ostacolo, senza mai però abbandonare il proprio ruolo, senza mai abbracciare l’ interdisciplinarità come semplificazione di un passaggio, ma indagando costantemente le possibilità della danza, creando uno scheletro, un contenitore che si fa significante e drammaturgia di se stesso con un approccio quasi scientifico, una ricerca fisica di un ambiente e di come il corpo è mosso ad abitare quell’ambiente. La prima parte dello spettacolo risulta più fredda, con un approccio quasi scientifico sull’ambientarsi della danzatrice in questo spazio limitato e definito, piccolo e costretto. Un corpo solo, ridotto all’essenziale, che porta in scena se stesso in uno spazio limitato. Lo stesso limite che nei minuti successivi si trasformerà da costrizione a nuove occasioni coreografiche, concentrandosi particolarmente sul ritmo e sulla percussione, grazie anche ad un’invisibile microfonatura del pannello che non altera la musicalità, ma aiuta a sostenere dei suoni che altrimenti sarebbero meno udibili, oltre a dargli una dimensione più materica e artefatta. Claudia Catarzi indaga così il desiderio di riportare alla luce come il corpo da solo possa ancora restituire, con la sua sferzante onestà, lasciando che l’idea risieda nel movimento, nella possibilità di fascinazione, nella concentrazione dell’atto e soprattutto nel parlare il linguaggio della danza. Studiare per scoprire dentro un limite preciso, l’accessibilità a condizioni impossibili, scoprire la duttilità del corpo nel risiedere in spazi specifici. La costrizione incide sull’intelligenza del corpo che esprime capacità di adattamento. Il tempo speso in questo spazio è humus vitale. Lo sviluppo successivo di questo solo, che dura appena 25 minuti, viene introdotto dal famosissimo brano di Philip Glass tratto dallo spettacolo Einstein on the beach, con il quale la Catarzi ha un rapporto distaccato, senza allusioni o strizzate d’occhio, ma percependolo quasi come un eco lontano e parole che rimbombano nella testa. Questa seconda parte riguarda il tempo e la danzatrice continua la sua indagine con una sequenza di spirali che creano un continuum senza fine. Un movimento che lascia incantati, che dall’azione porta ad un pensiero composto da parole non dette, ma guardate. Difficile pretendere di più.

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