Diego Fusaro dice troppe stupidaggini sull’Erasmus e merita di essere smontato in 5 semplici punti

Erasmus significa rischiare. E, di conseguenza, crescere. Mettere in discussione le proprie abitudini, i propri legami, le proprie idee significa provare ad affermare sé stessi e uscirne ancora più forti. Per farlo bisogna avere coraggio, quella stessa attitudine che chi oggi descrive gli studenti Erasmus come degli sfaticati, o quasi, probabilmente non ha. Un esempio? Diego Fusaro, insegnante filosofia in una struttura privata, l’Istituto Alti Studi Strategici e Politici” di Milano (IASSP), che da mesi si scaglia contro chi va a studiare per periodi dai 3 ai 6 mesi all’estero con articoli e interviste sui maggiori media nazionali. L’ultimo è un articolo del 27 giugno dal titolo Erasmus, precarietà e sradicamento. La nuova leva obbligatoria sezione blog del Fatto Quotidiano pubblicato il 27 giugno. 

L’articolo di Fusaro in 4 punti

Le ragioni espresse da Diego Fusaro per criticare l’Erasmus (o qualsiasi altra esperienza di studio all’estero) sono tante, ma possono essere ricondotte a quattro semplici concetti.

1) L’Erasmus implica precarietà esistenziale: mancanza di radici, perdita di identità, solitudine, vulnerabilità psicologica di fronte alle minacce del mercato.

2) L’Erasmus esorta all’edonismo e alla mancanza di valori.

3) Gli studenti sono condannati al girone infernale dell’Erasmus e si auto-convincono (o il sistema li convince) che esso in realtà sia un’esperienza positiva.

4) Il discorso vale solo per l’estero e non per gli spostamenti all’interno dell’Italia.

5) Questa situazione è propria dell’età contemporanea, quella appunto del “turbocapitalismo”.

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1. Viaggiare e conoscere “l’altro” significa scoprire meglio anche sé stessi 

Allargare, modificare o mettere in dubbio i propri orizzonti culturali non significa affatto essere superficiali a riguardo. Significa piuttosto riscoprire le proprie radici in sé e negli altri. Solo di fronte all’altro e al diverso si può costruire un’identità consapevole e matura. Questa è peraltro una lezione hegeliana (dialettica servo-padrone), strano che Fusaro faccia finta di non ricordarla visto che nella sua bio sul Fatto Quotidiano dichiara: “Mi considero allievo indipendente di Hegel e di Marx”.

2. Se parliamo di baldoria dobbiamo parlare anche di amore. 

Trovandosi in un ambiente impegnativo dal punto di vista intellettuale, lo studente Erasmus viene esortato allo studio e all’impegno, al non adagiarsi sugli allori. L’Erasmus esorta all’edonismo tanto quanto già lo fa la nostra società in generale. Certo, il fatto che tanti ragazzi stranieri si trovino tutti concentrati insieme può amplificare la voglia di fare baldoria, ma non succede forse anche con gli universitari in Italia ripetendo spesso per altro dinamiche di divertimento fini a sé stesse? Quando si esce, anche solo per una birra, con una persona cresciuta a migliaia di chilometri di distanza, con background culturali e familiari completamente diversi, ci si apre al confronto, ci si impone a provare a “guardare le cose attraverso gli occhi di un altro” in un contesto con pochi punti di riferimento, uscendo fuori dalla comfort zone. Baldoria? Sicuramente la curiosità ci porta ad essere più aperti riguardo alle esperienze sentimentali anche passeggere, ma non solo. Nei suoi ventinove anni di esistenza l’Erasmus ha contribuito alla nascita di più un milione di bambini. Molti di questi giovani studenti hanno conosciuto il partner all’estero e si sono poi sposati. Un terzo di loro hanno un compagno straniero e il 27% lo ha incontrato proprio durante il soggiorno all’interno del programma. Se parliamo di baldoria dobbiamo parlare anche di amore. 

3. L’Erasmus è per chi è disposto a mettersi in gioco, nessun obbligo

L’Erasmus è una libera scelta. Chi non pensa di volerlo fare non lo fa. Per farlo bisogna compilare lunghi documenti ed affrontare un infernale iter burocratico prima, durante e dopo l’Erasmus. Bisogna impegnarsi. Ed essere, probabilmente, già predisposti a mettersi in discussione.  È negativo cercare di aprire la propria mente ad altri scenari, a possibilità alternative? Questo, inoltre, sarebbe proprio l’attività par excellence del filosofo, che non si ferma al contingente ma cerca di aprire lo sguardo ad altre prospettive.

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4. Che differenza c’è tra un’esperienza all’estero e quella in un’altra regione d’Italia?

Se il problema è la precarizzazione attraverso il viaggio, se andassi a Napoli o a Milano (io che sono toscano) sarebbe lo stesso precarizzante? Io non ne sono molto convinto. Ma se lo fosse, a quel punto potrei fare lo stesso discorso con Bologna, poi con Firenze, poi con un altro quartiere della mia città, Pistoia, e alla fine otterrei l’auto-precarizzazione anche se uscissi di casa, o da camera mia. Potrebbe essere meglio addirittura chiudermi a chiave dentro casa, non si sa mai. Non credo che sia questa la conclusione del professore. Ma allora qual è la sua conclusione? Basta passare una frontiera invisibile  e arbitraria per essere più vulnerabili? Non può infatti trattarsi solo di una differenza culturale o linguistica. Tra me e un trentino, come con un pugliese, ci sono tante differenze (anche linguistiche) quante potrebbero esserci con un francese o un tedesco. È assurdo pensare che siamo più simili solo perché viviamo tutti a sud delle Alpi.

5. Il viaggio per studio all’estero non appartiene solo al nostro tempo: cosa pensa del Viaggio in Italia di gente come Goethe o Dumas?

L’Erasmus è una cosa nuova? Aristotele andò a studiare ad Atene, Cicerone in Grecia, centinaia di intellettuali nel Rinascimento e nell’età moderna viaggiavano per tutta l’Europa e parlavano varie lingue… Non si può dire  che ciò abbia provocato disastri, anzi. Questo per dire che viaggiare per motivi di studio, ricerca e anche svago non è certo una cosa nuova: l’intellettuale è per eccellenza colui che viaggia. Ovviamente, non è il semplice atto di prendere un treno o un aereo a trasformare le persone. È l’incontro-scontro con ciò che non si conosce a dare un senso all’esperienza del viaggio. Aprire gli occhi al diverso e sforzarsi di capire. Lo sforzo di apertura è ciò che fa crescere, è il senso profondo di questa esperienza. Dunque? È un problema l’Erasmus perché ora lo possono fare anche quelli che prima non potevano permetterselo? Chi scrive ha una  madre che, da giovane, poté permettersi al massimo due settimane d’estate in Irlanda con amici. Suo padre non riusciva neanche a fare le gite al liceo con il resto della classe perché costavano troppo. Vogliamo davvero tornare a quell’epoca, ma non per ristrettezze economiche, ma perché si ha paura che la gente, viaggiando, possa tornare diversa, ovvero più aperta al dialogo e al confronto tra culture rispetto al rimanere in patria e a volte accendere il televisore la sera per sentire parlare Diego Fusaro?

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Assunzioni immotivate

Che cos’è, in fondo, l’Erasmus? L’Erasmus è semplicemente la possibilità di studiare all’estero. Come si utilizza questo strumento dipende dai singoli individui. L’Erasmus ha prodotto una rete di conoscenze, relazioni, aperture che era inimmaginabile solo qualche decennio fa. La motivazione che ha spinto me e molti altri a viaggiare è stata quella di allargare le mie conoscenze, la mia capacità di adattamento, mettermi in gioco. Ora, con tutto il rispetto per Fusaro: che cosa c’entra la precarizzazione? Da dove salta fuori questo nesso causale inevitabile tra fare un Erasmus e sentirsi instabili? L’assunzione di Fusaro non è dimostrata, ma assunta come un dogma: se ci si sposta all’estero si diventa più precari. Punto. Ma questa sembra l’affermazione incontrovertibile di una teoria astratta, piuttosto che di un’idea basata ragionevolmente sull’esperienza. Mi chiedo se Fusaro abbia mai fatto un Erasmus o se si sia mai confrontato con persone che hanno vissuto questa esperienza.

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Foto di copertina: Erasmus Travel Europa Viaggiare, © piviso, CC0.